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La produttività degli spin off

Articolo originale su Nòva

Attraverso il rapporto Netval “parlano” il 92,4% dei docenti afferenti a settori disciplinari scientifici e tecnologici (S&T), l’83,6% del numero complessivo di imprese spin-off della ricerca pubblica  in Italia e sei Enti Pubblici di Ricerca (EPR) dall’Enea al Cnr. Dal 2000 censisce a descrive il fenomeno degli spin off universitari, anche per effetto delle disposizioni introdotte dalle leggi 297/99 e 388/00 che ne hanno in qualche modo normato l’esistenza. Questo per dire che sono un osservatore più che autorevole di questo fenomeno per quanto interno all’oggetto della ricerca.  Settimana scorsa è uscito il nuovo rapporto. I dati si riferiscono al 2012 e sono i più completi ad oggi disponibili in Italia.

“Nel loro complesso questi numeri dicono che le performance sul trasferimento tecnologico delle università in termini di numero di imprese spinoff e produttività brevettuale migliorano. E secondo i relatori del rapporto questo è imputabile anche e forse soprattutto anche grazie alla maggiore compattezza dell’ecosistema”. <span style=”line-height: 1.5;”> “Dieci anni fa – sottolinea Andrea Piccaluga, presidente Netval – il trasferimento tecnologico era molto più indietro e il merito va anche ai tanti addetti del TT che lavorano nelle università e negli enti di ricerca con competenza e passione”.

Tutto vero ma cosa dicono i numeri? In sintesi: gli spin off della ricerca attiva sono 1102, il portafoglio brevetti delle università ne conta 3356 e nel 2012 sono stati attivati 61 nuovi contratti di licenza (383 in totale quelli attivi) per un totale di entrare da licenze pari a 1,2 milioni di euro.

Nonostante i trend positivi si registrano tuttavia dimensioni ancora modeste delle imprese spin-off in Italia (sia in termini di numero di addetti che di fatturato).   Come anche per le startup parliamo di mondi piccoli con una loro biodiversità ma non esenti da anomalie molto italiane, come ad esempio un nanismo e una timidezza che ne prolunga la vita a discapito della crescita.  Tradotto: ne muoiono poche ma ancora meno riescono a spiccare il volo. Si accontentano, qualcuno potrebbe chiosare.  Rispetto ad altri Paesi curiosamente il tasso di sopravvivenza è particolarmente elevato. In qualche modo, sostengono i ricercatori che lavorano negli spin  off è la cultura accademica italiana da sempre poco incline all’impresa a frenare anche il coraggio di queste nuove imprese.

 

Guardandoli più da vicino, un terzo degli spin off attive in Italia al 31 dicembre 2013 sono attivi nel campo dell’Ict. (attualmente il secondo settore più rappresentato, con un’incidenza del 17,2% sul totale) e dell’energia e ambiente (16,3%) e del life sciences (15,8%). Seguono i comparti del biomedicale (8%), dell’elettronica (6,3%), dell’automazione industriale (3,6%).

In qualche modo, sostengono i ricercatori che lavorano negli spin  off è la cultura accademica italiana da sempre poco incline all’impresa a frenare anche il coraggio di queste nuove imprese. La mistica del ricercatore chiuso nel laboratorio e tra i libri continuerebbe a rappresentare un limite alla vocazione imprenditoriale. Eppure,  incrociando il ruolo del personale (professore ordinario, professore associato, ricercatore) con la media per anno di pubblicazioni del personale strutturato che ha creato spin-off emerge come la categoria di professori associati e ricercatori abbiano una forte propensione a proteggere i risultati delle proprie ricerche tramite l’utilizzo dei brevetti e a pubblicare dopo la costituzione. Mentre per i professori ordinari aumenta il numero delle citazioni successivamente alla creazione dello spin-off.

Più precisamente gli scienziati che creano spin-off mostrano una tendenza a brevettare e pubblicare articoli di alta qualità, misurati da un numero significativo di citazioni sia precedenti che successive alla costituzione dello spin-off. Insomma, lo spin off rende i ricercatori più produttivi e più bravi.  Ma è davvero così? Il modello tuttora prevalente negli spin-off italiani è dunque quello del ricercatore/fondatore che da champion del progetto di ricerca diventa esso stesso manager dello spin-off, con le potenziali conseguenze negative che da questo derivano attesa la mancanza di esperienze di business e di competenze manageriali. In altri termini, il team degli spin off resta ancora troppo accedemico e poco contaminato dai manager. <span style=”line-height: 1.5;”> “A volte – si legge nel rapporto – la composizione totalmente interna all’ambito di ricerca dipende da mancanza di </span>fiducia nel consegnare in gestione la propria idea di business a soggetti esterni o dalla difficoltà di trovare competenze ad hoc dati i vincoli di bilancio in particolare nella fase di avvio dell’iniziativa”. In questo senso andrebbe effetuata una ricerca più accurata sul conto economico e quindi sulla produttività degli spin off. Quanto guadagnano? Guadagnano?

Recentemente la Corte dei Conti nella sua relazione di controllo sulla gestione finanziaria del il Consiglio nazionale delle ricerche ha provato a guardare più da vicino i conti degli spin off avviati o partecipati dall’ente. Scrivono i giudici revisori “Una valutazione dei risultati degli spin off sostenuti dall’ente, quale emerge dai dati sintetici desumibili dai quadri contenuti nell’ultimo piano triennale di attività 2013- 2015 mostra, nel complesso, una scarsa capacità di crescita e di attrarre altri investitori”. A parte qualche isolata eccezione i numerosi spin off  non se la passano bene.

Il CNR ha ribadito “la validità concreta ed attuale dell’interesse scientifico alla partecipazione alla società in ragione della tecnologia innovativa sviluppata”.  E va aggiunto che se si guardasse ai risultati di incubatori e acceleratori probabilmente non si avrebbe risultati molto diversi. Ma il problema della produttività di queste imprese a cavallo tra ricerca e mercato non può essere eluso. Serve sicuramente un contaminazione più forte con il mercato e l’impresa. Sicuramente serve rivedere (o potenziare) il ruolo degli uffici di trasferimento tecnologico. Ma ancora una volta c’è chi pensa che quella che deve cambiare sia solo la mentalità.