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politica

Che fine fanno i migranti in Italia? La mappa dell’accoglienza

Quarantadue insediamenti informali in Italia che “accolgono” complessivamente dalle 6.000 alle 10.000 persone in 24 insediamenti costituiti da edifici, 2 da baracche e 2 da casolari, 3 da tendopoli, 2 fra container e roulotte e 9 campi dove le persone dormono all’addiaccio. Nella metà dei casi senza acqua corrente e senza elettricità e in un terzo dei casi con donne e bambini. A Foggia e a Catania sono presenti insediamenti dove vivono bambini e non ci sono né elettricità né acqua corrente.

È questa la situazione al 1 settembre 2018 (ma si tratta di numeri da prendere non al dettaglio data l’estrema fluidità di queste dinamiche) fotografata dall’ultimo rapporto “Fuoricampo” di Medici Senza Frontiere.

L’immagine è di un’estrema povertà che spesso non è sinonimo di irregolarità: l’80% di chi vive in questi contesti ha ottenuto il documento ma non riesce a inserirsi lavorativamente nella società e non può dunque permettersi un alloggio alternativo.“Ci sono migranti che transitano dai campi durante il loro cammino da sud a nord della penisola per cercare di superare la frontiera e congiungersi con le loro famiglie e ci sono persone che dopo l’accoglienza hanno ottenuto il documento e sono in Italia regolarmente, ma che sono ugualmente esclusi dalla società perché non riescono a trovare un lavoro stabile” spiega Giuseppe De Mola, fra gli autori del rapporto.

 

Il perché degli insediamenti informali

Fino a oggi sono stati due sistemi di accoglienza nel nostro paese. I primi sono gli SPRAR, nati in origine proprio per garantire un certo tipo di accoglienza integrativa a 360 gradi e con il coinvolgimento diretto dei Comuni. Il problema è che i posti nei progetti SPRAR sono pochi rispetto alle richieste di asilo: attualmente solo 30 mila dei 160 mila migranti sono ospitati nei progetti SPRAR. Per ovviare a questo problema a partire dal 2014 sono stati introdotti i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), che però non prevedono per loro statuto – sono appunto nati per fornire servizi di base per periodi limitati di tempo – l’obbligo alla formazione o al supporto nella ricerca del lavoro. “La conseguenza visibile di questa discrepanza è che si vedono situazioni di ragazzi che non fanno nulla, alimentando l’idea sbagliata che non vogliano fare nulla, ma non è così: è il sistema che in certe aree d’Italia non offre nulla a queste persone se non vitto e alloggio. Eppure il nuovo “decreto sicurezza” prevede proprio di assumere quello dei CAS come principale sistema modello d’accoglienza, a discapito dei progetti SPRAR” spiega De Mola.

Non malati, ma fragili

Dal punto di vista sanitario la prima cosa da dire, per sgombrare il campo da fraintendimenti, è che nel corso delle attività di monitoraggio effettuate da Medici Senza frontiere non abbiamo mai riscontrato focolai o epidemie di malattie pericolose, tubercolosi compresa – racconta De Mola – ma tante situazioni di fragilità. Il problema non è che loro arrivano qui portando chissà quali malattie, il problema è che qui si ammalano in Italia a causa delle condizioni di vita ad esempio negli insediamenti informali e che è sempre più complicato accedere ai servizi sanitari pubblici”. A livello normativo l’Italia è all’avanguardia: anche per gli irregolari è previsto l’accesso gratuito sia agli ospedali che all’assistenza territoriale, cioè agli ambulatori, grazie a un codice (STP) che viene loro dato al momento del primo accesso al Sistema Sanitario Nazionale. Dal punto di vista pratico però le cose non funzionano, e l’unico punto di accesso per queste persone rimane il Pronto Soccorso. “Inoltre – continua De Mola – è forse il fatto che per iscriversi al Servizio Sanitario Nazionale è necessario possedere una residenza anagrafica, che chi vive in insediamenti informali non ha.

C’è poi il problema del ticket. Sì perché in quasi tutte le regioni la normativa dà diritto all’esenzione dal ticket solo nei primi due mesi dalla richiesta di asilo, che sono i due mesi in cui la persona non può lavorare per legge. Alla scadenza dei primi due mesi ogni richiedente asilo anche se non lavora ha l’obbligo di pagare il ticket per ricevere qualsiasi prestazione. È evidente che in molti finiscono per pensarci due volte prima di recarsi in ospedale se non vi è un’urgenza.

“Abbiamo bisogno di progettualità”

Al momento non ci sono allarmi dal punto di vista sanitario, ma la mancanza di progettualità in questo senso è disarmante. La popolazione degli insediamenti informali è di fatto dimenticata: spesso sono gli stessi residenti a desiderare di essere invisibili per paura di essere puniti per la loro povertà, anche se regolari”. Il perché è semplice: il terrore dello sgombero. “In alcuni casi anche noi di Medici Senza Frontiere abbiamo avuto difficoltà ad entrare nei campi, ma non perché queste persone non desiderassero essere supportate, ma perché hanno paura che la nostra presenza possa attirare troppa visibilità sul loro insediamento e che questo possa provocare sgomberi da parte delle autorità”.