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L’inimmaginabile è stato immaginato #ungraficoeunlibro

In un passo dei suoi Saggi Montaigne ricorda una antica sentenza greca secondo cui gli uomini sono afflitti piuttosto dall’opinione che hanno delle cose che dalle cose stesse. Se questo è vero, e lo è almeno in parte, allora ciò che consideriamo tormentoso e maligno non è tormento né male in sé, ma è tale solo nella nostra immaginazione e nel nostro giudizio. Fuor di astrattezza, ma restando nella metafora, sta a noi, come scriveva Hegel, «scorgere la rosa nella croce», la ‘rosa’ del futuro nella ‘croce’ del presente, la rinascita nella caduta e nella sciagura l’occasione del riscatto. Nel suo Immaginare l’inimmaginabile. Cronache dell’anno che avrebbe potuto insegnarci tutto (Bollati Boringhieri, 2023) Jaime D’Alessandro ripercorre con dovizia di fatti, analisi e dati ufficiali l’assedio pandemico, per raccontare ciò che abbiamo colto di noi stessi posti di fronte allo specchio di un tempo sospeso e tragico, ma soprattutto quel che non abbiamo voluto migliorare del nostro rapporto con gli altri, con il lavoro, l’ambiente, le città e le inefficienze del Paese. L’inimmaginabile era lì, sotto i nostri occhi; quell’inesausta fiducia nelle nostra capacità di progresso che in passato ci aveva guidati pareva sfaldarsi; avremmo dovuto farne l’occasione di una nuova consapevolezza, per gettare, nei fatti, le basi di un futuro meno opaco di quello che giace sul nostro orizzonte. Qualcosa, tuttavia, sembra avere riportato indietro gli orologi al tempo in cui l’inimmaginabile si preparava a raggiungerci. Ma è davvero così? Ci resta una strada alternativa da percorrere? Ne ho parlato brevemente con l’autore.

Uno degli scopi del suo libro sembra essere quello di somministrare lettore una piccola terapia della consapevolezza a proposito delle opportunità che durante la pandemia di Covid-19 si sono presentate e che, ciononostante, non abbiamo saputo cogliere. Perché abbiamo fallito nel comprendere tutto il positivo che sarebbe potuto venire da una esperienza così inedita?
Lo abbiamo rimosso più che non compreso. E non sempre per gli stessi motivi. Alcuni lo hanno fatto per paura di cosa avrebbe potuto significare avere degli equilibri diversi, basti pensare al timore di perdere terreno o potere di tanti manager incapaci di gestire una rivoluzione come quella dello smart working. Altri, la politica, perché non vuole avere una strategia a lungo termine, basta quella che al massimo ha la prossima tornata elettorale come orizzonte. Altri ancora semplicemente perché sono stati costretti a tornare alla routine di prima. Il problema con le rimozioni è che tornano a galla, ma in genere in una forma più violenta. Quanto immaginato durante la pandemia è stata prima di tutto una condanna del passato espressa attraverso il desiderio di un futuro diverso.

Nonostante le riflessioni del periodo di ‘cattività’ pandemica, la «vecchia normalità» è tornata a dettare i ritmi della nostra vita quotidiana. È rimasto, tuttavia, qualcosa oggi, almeno un’ombra di quella nuova coscienza di noi stessi?
Resta il fatto che per una volta abbiamo capito che quel che davamo per inevitabile, dall’organizzazione del lavoro a quella delle città, è in realtà evitabile. Non è poco.

Lei scrive che il nostro tempo soffre di una «mancanza di immaginazione di futuro» sebbene non sia mai esistita un’epoca in cui il futuro abbia avuto un tale peso. Quali sono i temi più rilevanti su cui dovremmo tornare a riflettere per preparare il nostro avvenire comune?
Credo che chi non immagina il futuro, chi non ha una strategia a lungo termine, finirà per subire l’agenda di qualcun altro. Ovvero di coloro che il futuro non solo lo hanno immaginato ma anche saputo imporre. Il problema maggiore del dover seguire le agende altrui sta nel fatto che non perseguono i tuoi interessi. In Europa ce ne siamo accorti con il digitale, lasciato colpevolmente nelle mani di americani e cinesi. Siamo sempre meno in Italia e siamo sempre più poveri, non c’è una politica industriale da decenni, l’ascensore sociale è bloccato… questi i primi temi che mi vengono in mente, ma la lista è lunga.

Lei nutre buone o cattive speranze rispetto al modo in cui affronteremo ciò che ci sta venendo incontro?
Non ho molta stima del nostro modo di percepire le cose, specie in Italia dove scambiamo spesso sintomi per cause e siamo maestri nel dibattere fino allo sfinimento di aspetti marginali ignorando quelli di peso maggiore. Ma è una questione più generale in realtà. Diciamo che homo sapiens è una definizione che ci siamo dati in un momento di smisurata autostima. Spesso però cozza con una realtà dei fatti diversa.

 

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