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cronaca

L’educazione sessuale che si fa nelle scuole funziona?

Il punto è che non lo sappiamo. Quello che sappiamo è che fra gli adolescenti e le adolescenti sul sesso c’è ancora molta mitologia presa per verità. Secondo uno studio condotto dall’Istituto Superiore di Sanità su oltre 16 mila ragazzi fra i 16 e 17 anni, iscritti in 482 scuole d’Italia nel 2019, la percezione dei giovani è di sapere più di quanto in realtà sanno a proposito di sessualità, affettività e malattie sessualmente trasmesse. Il risultato è che il 10% di chi di loro è sessualmente attivo non usa alcun metodo contraccettivo, nemmeno il coito interrotto. Un adolescente su dieci pensa addirittura che il coito interrotto protegga dalle malattie e il 9% dei maschi e il 7% delle femmine è convinto che fare sesso calcolando i giorni fertili sia sufficiente per proteggersi dalle eventuali malattie sessualmente trasmesse. E ancora: il 20% di loro – uno su cinque fra maschi e femmine – considera la pillola anticoncezionale un metodo valido evitare infezioni.
Le malattie sessualmente trasmesse (IST) sono in aumento fra i giovanissimi. L’ultimo bollettino dell’Istituto Superiore di Sanità di luglio 2021 rilevava che sal 2000 al 2019 è aumentato del 23% circa il numero di donne con IST, negli ultimi cinque anni i casi di gonorrea sono raddoppiati, e in 15 anni è più che raddoppiato il numero di donne con herpes genitale.

Molti giovani ancora oggi non si sentono a proprio agio a parlare di sesso in famiglia. Il 45% di questi ragazzi e ragazze non ha mai nemmeno parlato di contraccezione a casa, il 44% non ha mai affrontato il tema delle malattie sessualmente trasmesse, il 42% dei cambiamenti della pubertà e della maturità sessuale.

C’è bisogno di educazione sessuale nelle scuole, ma se ne fa pochissima, e laddove c’è si limita a momenti brevi nel corso dell’anno, estrapolati dall’attività scolastica vera e propria. Ma soprattutto non vengono mai monitorati e documentati i risultati di questa formazione per capire se ha funzionato. Lo mostra il primo studio italiano che ha cercato di mappare le attività di questo tipo nelle scuole superiori dal 2016 al 2020, incluso dunque il primo anno pandemico, che ha visto azzerarsi quel poco che era stato impostato. Un anno e mezzo di vita per un adolescente è un periodo molto lungo. Il questionario fa parte del progetto EduForIST (Sviluppo di strumenti tecnici e pratici per lo svolgimento di attività educative e formative in ambito di sessualità, relazioni affettive e prevenzione delle IST nel contesto scolastico) del Ministero della Salute in collaborazione con il ministero dell’Istruzione, che si pone l’obiettivo di sviluppare un documento tecnico di riferimento che definisca linee di indirizzo e strumenti didattici.
I risultati evidenziano un quadro molto eterogeneo, sia come obiettivi, che come contenuti e metodi utilizzati. Non deve stupire, data l’assenza di uno standard nazionale per l’educazione sessuale negli ambienti scolastici. Sono state esaminate 219 attività svolte nelle scuole secondarie. Gli obiettivi riportati includevano: fornitura di informazioni (37,4%), sensibilizzazione (26,8%) e formazione degli studenti per esempio attraverso l’educazione tra pari (8,2%). La durata media delle attività è stata di tre sessioni per un totale di sei ore, e in molti casi – il 42% – queste attività hanno assunto la forma di interventi a sessione singola. Insomma: ben poco. La ricerca sul web ha portato a individuare 34 quadri normativi pubblicati tra il 2016 e il 2020: 22 risoluzioni, 11 piani di prevenzione, il 53% dei quali nelle regioni del Nord Italia. La mancanza di standard nazionali può aiutare a spiegare la copertura a macchia di leopardo. Le città metropolitane e le regioni centro-settentrionali sembrano essere le aree meglio servite, lasciando indietro i giovani vulnerabili delle regioni meridionali più svantaggiate.

Il problema di fondo è che l’educazione sessuale non fa parte del curriculum scolastico, ma risulta un’opzione ancora poco presente, come progetto gestito da realtà esterne per un tempo molto breve. Idealmente, spiegano gli autori, questo argomento dovrebbe essere introdotto nei curricoli come tema interdisciplinare, o incluso come argomento affrontato in altre discipline, come l’educazione alla cittadinanza, con cui condivide alcuni obiettivi e contenuti. Se introdotto come tema interdisciplinare, la completezza e l’accuratezza della proposta educativa dovrebbero essere supportate attraverso la nomina di un responsabile del curriculum e implementate dagli insegnanti di diverse materie appositamente formati e supportati da esperti esterni di una varietà di discipline (ad esempio psicologi e sessuologi, andrologi, ginecologi e ostetrici, nonché professionisti della salute e dell’istruzione). “Sebbene siano stati fatti molti tentativi per introdurre l’educazione sessuale nel curriculum scolastico – spiegano gli autori – essa rimane un argomento controverso in Italia. Ciò è in gran parte dovuto a fattori sociali, culturali, religiosi e politici ancora molto forti, come il mito che l’informazione prouova comportamenti sessuali precoci o promiscui, l’opposizione politica all’inclusione di argomenti correlati alle persone LGBTQIA+ o convinzione che l’educazione sessuale a scuola interferisca con il diritto dei genitori di educare i propri figli su questi argomenti”, come se l’educazione affettiva e sessuale non fosse un elemento della cittadinanza.