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cronaca

La variante Omicron e i dati sulla pandemia: bentornati a marzo 2020

Volendo riassumere in tre parole la reazione suscitata a livello mediatico dal sequenziamento della nuova variante omicron, si potrebbe parlare di coazione a ripetere. Sì, perché buona parte della risposta del giornalismo italiano all’insorgere di questa nuova mutazione non ha saputo governare il cortocircuito tra comunicazione della scienza e politica.  Lo stesso cortocircuito che si è verificato tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo del 2020.

Prima si scatena il panico, parlando di “incubo”, poi si scrive che non bisogna lasciarsi prendere dal panico. Nel frattempo si contano, ad uno ad uno, i nuovi casi di contagio da variante omicron (per inciso, un vizio condiviso anche da parte della stampa straniera). Quasi come se questo tracciamento giornalistico potesse in qualche modo aiutare a tenere sotto controllo la pandemia. O, per dirla con il lessico scelto da alcuni importanti quotidiani italiani, fosse possibile erigere “muri” per evitare lo “sbarco” del virus nel nostro paese.

Tutto, insomma, come se fossimo a marzo del 2020. Tutto come se i 20 mesi trascorsi non avessero messo in luce l’importanza dell’insegnamento che il maestro Yoda diede ad un giovane ed avventato Luke Skywalker: “pazienza devi avere”. Il tentativo, qui, è quello di avere pazienza e provare a fare un po’ di ordine. Intanto, serve davvero questo conteggio dei casi da variante omicron?

Servirebbe in un mondo ideale, nel quale ogni tampone positivo viene sottoposto a sequenziamento. Mondo ideale al quale non appartiene il nostro paese, dove l’analisi del genoma del virus riscontrato nei pazienti risultati positivi rimane residuale, come certifica l’ultimo bollettino dell’Istituto superiore di sanità:

I dati riportati riguardano gli ultimi 50 giorni. In giallo la quota percentuale di tamponi sequenziati sul totale. Con le eccezioni positive di Sardegna e Molise, nel resto del paese il sequenziamento è residuale se non, come nel caso della Toscana e della Liguria, nullo. Solo in queste due regioni, nel periodo considerato, sono risultate positive 19.603 persone. Di quale sia la variante del virus con cui sono entrate in contatto non sappiamo nulla. Quanto è importante, quindi, avere contezza del fatto che in Italia una persona ha contratto la variante omicron quando ci sono decine, se non migliaia, di contagi dei quali non conosciamo niente?

Eppure la prima cosa che i media dovrebbero aver imparato in questo anno e mezzo di pandemia è che in un mondo globalizzato un virus che rende contagiosi anche gli asintomatici si diffonde con estrema, e maledetta, facilità. Che non c’è modo di fermarne lo “sbarco” nel nostro, come in nessun paese del mondo. Senza contare che questa fase di identificazione di una nuova variante è una fase in cui ancora stiamo inseguendo il virus. Un inseguimento che ci ha permesso di scoprire che la variante, che per i primi giorni è stata chiamata “sudafricana”, era già stata identificata in Olanda prima dell’annuncio di Pretoria. Ovvero all’interno dell’area Schengen, con buona pace della retorica dei “muri” e del virus che “sbarca” in Italia.

Oltre al tracciamento giornalistico,  si è tornati a leggere parole che attengono ad una sfera di significato che ha a che fare più con i sentimenti che con i laboratori. Ci si fosse limitati a parlare di reazioni dei mercati, poco male. Non è su queste pagine che si deve ricordare quanto si tratti di contesti in cui è necessario muoversi in fretta. Il problema sta nel fatto che questa paura è stata trasmessa anche ad altre questioni, come la gravità della Covid-19 indotta dalla variante o la capacità dei vaccini attuali di prevenire il contagio o gli effetti gravi della malattia. Tutte domande rispetto alle quali la risposta è identica: allo stato attuale delle conoscenze, non lo sappiamo. Perché, appunto, per rispondere serve del tempo, come ha ricordato su Twitter l’epidemiologo computazionale Alessandro Vespignani:

Serve tempo per raccogliere i dati: bisogna che le cose succedano perché i ricercatori le possano analizzare. Oppure vogliamo tornare alla dittatura della derivata seconda, quel periodo della scorsa primavera in cui più di uno si è cimentato nel prevedere la data di picco dei contagi usando modello che funzionano alla perfezione in vitro, ma molto meno in campo? È certamente vero che la pandemia ha accelerato notevolmente i tempi della ricerca sul Sars-CoV-2, ma quelli della scienza rimangono tempi molto più lunghi della cronaca. “Stacce”, direbbe la coscienza armadillo di Zerocalcare.

Quelle che si possono fare al momento sono previsioni più o meno ardite. Lo dimostra anche il fatto che nella stessa giornata il Ceo di Moderna Stephan Bancel abbia dichiarato al Financial Times che contro la variante omicron serviranno nuovi vaccini, mentre la senior vicepresident di BioNTech Katalin Kariko, che i vaccini a mRna li ha inventati, abbia affermato in un’intervista alla Stampa che quelli attualmente in uso potrebbero proteggere dalle forme più gravi della malattia. Non prima di aver specificato che per capirlo “serve un numero molto ampio di dati, che ad ora non abbiamo”.

In attesa dei dati abbiamo, o dovremmo avere, la pazienza di aspettarli. Come comportarsi, dovrebbe essere ormai chiaro da tempo: distanziamento, mascherina dove non è possibile, igiene delle mani, areazione frequente dei locali. E poi la terza dose di vaccino per chi ha completato il ciclo da più di 5 mesi o la prima per chi, magari per una paura innescata anche da chi scrive che non bisogna cedere al panico, ancora deve fare la prima.

Articolo editato alle 10:03 del 1 dicembre. Una prima versione indicava erroneamente Katalin Kariko come impiegata a Moderna.