Indica un intervallo di date:
  • Dal Al
cronaca

Come sta andando il contagio in Umbria? L’indicatore Rt, i focolai temporanei e i dati spiegati bene

Con il nuovo rapporto pubblicato dall’istituto superiore di sanità (ISS), l’Umbria è tornata sotto soglia per un indicatore importante che misura l’espansione dei contagi per COVID-19. Aveva destato qualche attenzione la prima versione del monitoraggio settimanale dell’istituto, in cui la regione dell’Italia centrale era fra le uniche tre (insieme a Lombardia e Molise) classificata come “moderata”, mentre le altre 18 regioni e province autonome erano state incluse – in base a una serie di criteri – fra quelle dal profilo “basso”.

In Umbria infatti la classificazione settimanale era passata da bassa a moderata per “un aumento nel numero di casi” e un indice Rt maggiore di uno. L’indicatore Rt (indice di riproduzione netto) esprime il numero medio di nuove infezioni generate da un malato a una certa data, ed è una misura fondamentale per capire qual è la direzione dell’epidemia – se cioè essa sta accelerando o rallentando. Se è maggiore di uno vuol dire che ogni malato tende a contagiare, in media, più di un’altra persona, il che significa che l’espansione dell’epidemia sta accelerando. In caso contrario, quando l’Rt è minore di uno, “soffoca” come un fuoco a cui viene tolta l’aria. Tutto questo, “in un contesto ancora con una ridotta numerosità di casi segnalati e che pertanto non desta una particolare allerta”.

 In seguito però questo indicatore è tornata sotto l’unità, a indicare che appunto come suggerivano le prime analisi si era trattato di un focolaio temporaneo e per fortuna presto riportato sotto controllo. Si tratta anche di un’utile lezione su come interpretare questo genere di misura. Essa non va preso alla lettera, nel senso che non serve allarmarsi se una singola settimana o una singola regione presentano temporaneamente valori maggiori di uno. Quando però rimane per diverso tempo in alto – come è successo nelle fasi più acute dell’epidemia nei mesi scorsi –, diventa un importante campanello d’allarme. Ignorato troppo a lungo, si può arrivare a un contagio che cresce come è successo in Lombardia.

 Date le informazioni a disposizione questa è forse la misura più accurata che abbiamo a disposizione per farci un’idea di come stanno andando le cose. Purtroppo però essa ha anche un limite importante: “poiché la diagnosi di infezione da coronavirus SARS-CoV-2 [ovvero il virus che causa la malattia che abbiamo chiamato COVID-19] può avvenire anche due o tre settimane dopo l’infezione a causa del tempo di incubazione della malattia (fino a 14 giorni) e dei tempi intercorsi tra l’inizio dei sintomi, la ricerca di assistenza medica e il completamento dei test di laboratorio, il valore di Rt può essere stimato correttamente solo con un ritardo di 15 giorni”. I numeri pubblicati dall’ISS il 22 maggio, per esempio, sono da considerarsi completi soltanto fino al 3 maggio, ovvero prima che cominciasse l’allentamento delle misure di emergenza contro la malattia.

 Questa è la prima ragione per cui prima di trarre conclusioni è saggio aspettare almeno qualche settimana. La seconda è che un fenomeno di questo genere riguarda letteralmente il comportamento di decine e decine di milioni di persone, e ha un’inerzia tale che per cambiare di direzione in qualsiasi verso richiede tempo. Certamente non è che fino al 4 maggio tutti gli italiani (o se è per questo gli abitanti dell’Umbria) fossero rimasti chiusi in casa, per poi uscire in massa non appena possibile.

 Secondo i dati raccolti da uno studio di Fondazione ISI e Università di Torino sulla mobilità delle persone, per esempio, in Umbria come altrove i contatti delle persone sono certamente risaliti dopo il 4 maggio. Ma non sono ancora tornati dov’erano prima che cominciasse l’epidemia. Lo stesso suggeriscono i dati di Apple ricavati dai propri cellulari, che mostrano come ancora al 26 maggio la mobilità in auto nella regione sia ancora ben minore rispetto alla fase pre-chiusura.

 In più dopo due mesi di lockdown ci sono in circolazione molti meno casi rispetto a un tempo, e quindi perché si ricominci a vedere un nuovo aumento dei contagi servirà del tempo – anche se naturalmente ci auguriamo tutti che non andrà così.

Più in dettaglio, come ha segnalato su Infodata Cristina Da Rold, la regione Umbria ha creato una pagina dedicata all’emergenza in cui si possono trovare gli ultimissimi aggiornamenti.

 Al 27 maggio, le persone attualmente positive erano 46 contro le 49 del giorno precedente – dunque un calo del 6%. I casi attuali si concentrano nella parte più a nord e più a sud della regione, con in particolare diversi positivi a Terni. Il comune di San Gemini, 5mila abitanti appunto in provincia di Terni, è quello che presenta il maggior tasso di positivi ogni mille abitanti, con 0,81 casi rispetto alla popolazione di riferimento.

(Fonte: Regione Umbria)

Nel complesso, si legge ancora, la regione ha avuto 1.431 casi che è stato possibile confermare attraverso un test, 1.310 guariti e 75 morti. Il numero dei casi non include tutti coloro che hanno contratto la malattia, ma soltanto coloro che è stato possibile individuare tramite tamponi. Resta comunque del tutto plausibile che diverse altre persone (magari del tutto asintomatiche) si siano ammalate senza neppure accorgersene, oppure che non a tutti i sospetti sia stato effettuato il test.

In Umbria finora sono stati condotti 66.202 tamponi. Secondo i dati della protezione civile, allo stesso tempo, i casi testati sono stati un filo meno di 47mila. La differenza da questi numeri dipende dal fatto che la stessa persona, per vari motivi, può essere testata anche più di una volta. Un modo per capire se una regione sta conducendo tanti o pochi test consiste nel calcolare quanti casi sono stati analizzati per ogni decesso. È una misura utile in quanto le aree dove l’epidemia è più estesa devono, per contenerla, fare più tamponi di altre dove invece la situazione è meno grave. Secondo questa metrica l’Umbria è la terza regione italiana, con 626 casi testati condotti per ogni decesso. In Lombardia, per fare un paragone, troviamo la situazione opposta e per ogni decesso sono state testate invece appena 26 persone.

Tuttavia al momento in Umbria si contano anche 481 persone in isolamento (il 7% in più del giorno prima quando erano state 450), mentre coloro sono 22.614 gli usciti da questa condizione. I ricoverati in ospedale sono invece 15, uno in più rispetto al 26 maggio, di cui due in terapia intensiva. Il sito offre anche un’utilissima panoramica comune per comune e addirittura ospedale per ospedale, da cui si può verificare che tutti i pazienti in regione sono stati ricoverati in due strutture diverse, rispettivamente a Terni e Todi (Perugia).

Secondo il rapporto settimanale dell’ISS, aggiornato al 21 maggio, i laboratori di riferimento regionale hanno diagnosticato 1.425 infezioni con un’età mediana di 54 anni. Questo vuol dire che ci sono state tante persone malate più giovani di quell’età, quante erano quelle più anziane.

Finora l’Umbria, come tante altre regioni del centro-sud, è stata risparmiata dalle conseguenze peggiori dell’epidemia come invece è successo in Lombardia. Ma questo non significa che non ci siano state vittime. Un rapporto  realizzato da ISS e Istat ha analizzato i dati di mortalità dell’87% dei comuni italiani, trovando che a marzo i decessi in Umbria sono aumentati del 7% rispetto alla media dei quattro anni precedenti nello stesso periodo. La situazione è risultata simile sia nella provincia di Perugia che in quella di Terni, con valori in entrambi i casi non troppo distanti da quel valore percentuale.

Nel caso di Perugia disponiamo persino di informazioni ancora più dettagliate e relative alla sola città, che arrivano dal sistema di sorveglianza della mortalità giornaliera (SISMG).   Nel capoluogo regionale, osservano autori e autrici, al 28 aprile sono avvenuti 294 decessi contro i 263 attesi, con un aumento del 12% lungo un periodo di due mesi. Questo tipo di calcolo è, secondo gli esperti, il modo migliore per cercare di capire quanti sono stati davvero i morti per COVID-19.

Contare soltanto i casi comunicati dalla protezione civile porta in effetti a una sottostima dei valori reali – come per chi è deceduto senza che fosse stato testato per la malattia.