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economia

Oltre il Pil: servirebbe misurare la salute mentale della popolazione

Chi segue il dibattito internazionale non può non osservare che il leitmotiv di questi ultimi anni è un approccio integrato e a 360 gradi in qualsiasi politica. Dall’epoca della multidiciplinarietà si è passati a quella della trasversalità, come dimostrato dai Global Goals delle Nazioni Unite, 17 obiettivi ognuno intrecciato gli altri, ognuno irraggiungibile se non si travalicano i paraocchi settoriali. Lo stesso approccio riguarda il concetto di crescita economica.

Il 30 maggio scorso la premier Jacinda Arden ha lanciato il primo Wellbeing Budget  , un documento di “bilancio per il benessere”. Al centro c’è il concetto di misurare il benessere della popolazione considerando tutti gli aspetti che lo compongono. Non si tratta certo del primo tentativo di andare oltre il Pil, ma rappresenta sicuramente un passo in avanti concreto interessante, che mira a orientare praticamente le scelte di governo. Una cosa infatti è sapere che l’approccio al benessere deve essere a 360 gradi, altra cosa è stabilirlo nel proprio documento di Budget annuale.

Nel documento neozelandese gli indicatori salgono a 60, e valutano punto per punto non solo il benessere corrente, ma come proposto da Ocse, anche quello intergenerazionale e soprattutto disaggregando i risultati dei diversi gruppi socioeconomici.  Un conto è parlare di sistema paese nel complesso, altra cosa è avere a disposizione dei dati a livello locale sullo stato di benessere delle persone: solo in quest’ultimo caso si può agire in modo mirato laddove persistono disuguaglianze e fragilità.

 

Il risultato è che per il 2019 il Governo neozelandese ha individuato grazie a questo approccio integrato cinque aree di intervento prioritarie: rafforzare la salute mentale, in particolare nei giovani, ridurre la povertà infantile, ridurre il gap delle popolazioni indigene in termini di opportunità, potenziare l’economia digitale, lavorare per un’economia a basse emissioni di CO2. Prendiamo l’esempio della salute mentale: che cosa c’entra con l’economia? C’entra, in termini di capitale umano: ogni anno, un quinto dei neozelandesi riceve una diagnosi di malattia mentale e tre quarti dei casi a partire dai 25 anni di età. Il 12% degli under 24 è Neet, cioè non studia né lavora.  Al tempo stesso il tasso di suicidi fra i giovani è fra i peggiori dell’area Ocse. Infine, una persona su 100 è senza casa e circa 150 mila bambini vivono in condizioni di estrema povertà abitativa (il 40% deo bambini del Pacifico e il 25% dei Maori)  fatto che si traduce in 41 mila minori che ogni anno vengono portati all’ospedale per  condizioni legate a questa grave deprivazione materiale.  Questi sono solo alcune delle reazioni a catena che stanno alla base dell’iceberg di cui noi misuriamo la punta che chiamiamo Pil nazionale, e sulla base del quale i governi decidono di allocare risorse.

La questione della salute mentale è cruciale anche per un altro aspetto: i dati mostrano che con il passare dei decenni si registri una sempre maggiore prevalenza di disturbi mentali come l’ansia, nonostante le società siano diventate sempre più ricche. A questo proposito un libro molto interessante uscito l’anno scorso a firma di Richard Wilnkinson e Kate Pickett (ne abbiamo parlato qui) evidenziava che la misura del benessere mentale di una società non dipende dal Pil o dal Pil medio pro capite, e quindi dal potere d’acquisto medio della popolazione, ma dal livello di disuguaglianza economica e quindi di opportunità che permea una società.

 

Fra le cinque aree di intervento individuate non citiamo l’esempio della povertà infantile a caso, ma perché anche l’Italia la povertà infantile è un problema serissimo e un driver di disuguaglianza sociale incredibile, a partire dal gap educativo. Secondo le stime di Save The Children (ne abbiamo parlato qualche giorno fa anche noi di Infodata ) 1,2 milioni di bambini e adolescenti vivono in povertà assoluta e mano a mano che si va in periferia la segregazione educativa (i risultati dei Test INVALSI sono inequivocabili) rende sempre più difficile uscire dal circolo vizioso della povertà.