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Cosa è successo alle elezioni politiche del 4 marzo? Cosa dicono i numeri

Le elezioni politiche del 4 marzo scorso non hanno portato a un risultato netto, anzi. Nessuna delle tre principali coalizioni ha ottenuto voti sufficienti per andare avanti da sola, e perché si formi un governo non c’è altra via che un accordo fra almeno due di esse. Al momento tuttavia ancora non è andata così, e la situazione resta estremamente incerta. Tanto incerta, in effetti, che per regolare i rispettivi rapporti di forza fra partiti molti hanno suggerito di guardare al risultato delle elezioni regionali che ci sarebbero state poco tempo dopo – come quelle in Molise o Friuli-Venezia Giulia.

 

Eppure usare i risultati delle elezioni amministrative per sbrogliare questa matassa sembra una pessima idea, perché in esse le preferenze degli elettori tendono a seguire un percorso parecchio diverso. Al punto da dirci pochissimo e forse proprio niente sulla direzione che le persone preferirebbero per un governo nazionale.

 

Le elezioni regionali rispecchiano la storia, gli eventi e i problemi della politica locale e quasi sempre non hanno molto a che vedere con quella nazionale, che naturalmente deve confrontarsi con una scala di questioni assai più complicata. Proprio le competizioni amministrative degli ultimi mesi – a partire da quelle tenute insieme alle politiche il 4 marzo scorso, fino a quella recentissima del Friuli-Venezia Giulia, – mostrano come fra il voto locale e quello nazionale c’è spesso un’enorme differenza.

 

Usare il primo per cercare di risolvere lo stallo del secondo, come hanno fatto molti politici e commentatori, è una scorciatoia. Ma se i due risultati partono da preferenze elettorali del tutto diverse, com’è il caso, si tratta di una strada che non ha molto senso logico: tanto vale allora tirare a caso.

 

Certo anche gli elettori locali esprimono preferenze politiche e ideologiche, com’è naturale, ma la distanza con il voto nazionale è a volte talmente ampia da far emergere come in fondo a quel livello contino molto di più questioni territoriali, quotidiane, più che altre legate ai massimi sistemi.

 

Se prendiamo già le regionali di qualche giorno fa in Friuli-Venzia Giulia, troviamo per esempio che il Movimento 5 Stelle ha avuto un risultato di gran lunga inferiore rispetto a quello delle politiche, nell’ordine anche di 15 punti percentuali in meno: un’enormità. Né dai sondaggi nazionali risultano cali post-elettorali di questo partito, per cui la differenza non può che essere attribuita a preferenze locali.

 

Se usassimo solo questo risultato per pesare la situazione nazionale, nel quadro delle consultazioni per il nuovo governo, finiremmo con tutta probabilità per sottovalutare il Movimento 5 Stelle e premiare gli altri schieramenti.

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Problema identico si creerebbe a voler invece prendere come riferimento le elezioni regionali del Molise. Già per cominciare sarebbe ben strano voler appendere i destini di una nazione di 60 milioni di abitanti al voto di 300mila persone, ma anche facendo finta di niente ci troveremmo a dover eguagliare il risultato di una delle aree in cui il Movimento alle politiche ha preso più voti: tanto da superare in alcune province anche il 45% del totale.

 

Non sorprende allora che i risultati della corsa a governatore regionale siano di gran lunga inferiori rispetto ad allora, e ancora per percentuali a doppia cifra. Ma lo stesso discorso potrebbe essere fatto, anche se con intensità minore, anche per gli altri partiti principali. Tutti, infatti, in confronto al 4 marzo hanno ottenuto un risultato peggiore, con Forza Italia leggermente più sfavorita degli altri. D’altronde la bilancia in favore di uno schieramento o dell’altro è stata spostata da liste che a livello nazionale non esistono proprio. Come facciamo a pesare anche loro nel gioco delle consultazioni?

 

 

E se invece queste differenze fossero dovuto al fatto che è passato del tempo fra le due elezioni, e magari le scelte degli elettori sono cambiate nel frattempo? Sappiamo in realtà che le preferenze elettorali difficilmente cambiano molto in poche settimane, e di nuovo dai sondaggi oggi disponibili non sembrano esserci stati enormi spostamenti rispetto a due mesi – di certo non tali da giustificare quindici punti percentuali di differenza nel voto allo stesso partito.

 

Tornando poi un po’ più indietro abbiamo una specie di “esperimento naturale” cui possiamo attingere, perché insieme alle elezioni politiche del marzo scorso i cittadini delle rispettive regioni hanno votato – proprio lo stesso giorno – anche alle regionali di Lazio e Lombardia.

 

Se nelle consultazioni i partiti volessero usare la prima regione, per sparigliare lo stallo attuale a essere poco contenti sarebbero di nuovo il Movimento 5 Stelle, ma con esso anche la Lega. Quest’ultima, per la prima volta nella sua ormai decennale storia, ha ottenuto un gran numero di voti non solo al nord. Anzi una parte significativa del suo risultato si deve a un risultato spesso vicino al 20% persino in pieno centro Italia proprio come nel Lazio, dove tradizionalmente non si era mai accaparrata chissà quanti voti.

 

Eppure alle regionali la Lega si è dovuta accontentare di diversi punti in meno, e anche nelle province dov’era andata meglio come Rieti o Viterbo non è arrivata nemmeno al 15%: non poco per un partito finora sempre radicato al nord, ma certamente molto meno di quanto il risultato nazionale vorrebbe se gli elettori votassero in entrambi i casi allo stesso modo.

 

Se il nodo gordiano del futuro governo fosse sciolto in base alle regionali del Lazio l’unico a poter davvero festeggiare sarebbe il Partito Democratico, che in tutte le province ha ottenuto una fetta di voti superiore a quella nazionale. A poter scegliere liberamente, per loro questo sarebbe il caso più favorevole di tutti.

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Per tutti questi casi in cui la differenza fra amministrative e politiche risulta enorme, ce n’è anche uno in cui curiosamente le preferenze risultano allineate: la Lombardia. Fra tutti quelli analizzati, queste sono le uniche consultazioni dove non risulta una differenza poi così grande fra voti locali e nazionali.

 

A voler proprio cercare il pelo nell’uovo qui ad avvantaggiarsi un po’ sarebbe la Lega, che soprattutto in province come Sondrio o Lodi è stata premiata dalle amministrative più di quanto sia successo alle politiche. Anche PD e Movimento 5 Stelle troverebbero forse qualcosa in contrario, in particolare a Milano, ma fra tutti gli esempi recenti quello lombardo resta senza dubbio il più vicino a rispecchiare il risultato delle elezioni politiche.

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Detto questo, bisognerebbe poi aprire tutto un altro capitolo per chiarire se in Lombardia si è trattato di un caso oppure lo stesso è capitato anche nei giri precedenti, ma anche se così fosse per tutte le regioni resta l’obiezione della rappresentatività: che nel caso della Lombardia, in cui dopo tutto vive un italiano su sei, sarebbe forse più debole, ma a maggior ragione varrebbe per i neppure sei milioni di laziali per non parlare delle altre aree ancora più piccole.

 

In base a quale principio gli equilibri decisi da un voto di tutti gli italiani dovrebbero essere decisi da singole consultazioni locali? E chi decide, poi, quali contano e quali no?

 

La conclusione è che se vogliamo rispecchiare davvero il voto degli italiani, non ha senso usare il voto di elezioni amministrative – in qualunque verso. Politici e commentatori non dovrebbero aspettarsi che a togliere le castagne dal fuoco dall’intricata situazione che si è creata siano altri, a parte i partiti stessi che dovranno trovare in qualche modo una maniera di accordarsi usando le forze parlamentari di cui dispongono – pena nuove elezioni, novità assoluta per la repubblica a così breve distanza dal voto.

 

Nota metodologica: nelle elezioni del Friuli-Venezia Giulia le circoscrizioni elettorali alla elezioni regionali non rispecchiavano esattamente le province che compongono la regione, per cui sono state considerate soltanto la aree di Pordenone, Trieste e Gorizia.