Indica un intervallo di date:
  • Dal Al
politica

Come si misura l’antitglobalismo contemporaneo #ungraficoeunlibro

A partire dalla fine del Novecento molti economisti e scienziati sociali hanno condiviso l’assunto che alla globalizzazione corrisponderebbe un sistema di relazioni – politiche, finanziarie, commerciali e industriali – destinato a muovere verso il meglio quasi per necessità naturale, assicurando una crescita su vasta scala, solida e duratura. Negli ultimi anni, tuttavia, non solo è emerso, alla luce dei fatti e dell’esperienza, che i vantaggi prodotti da un sistema iperglobalizzato non hanno carattere universale, ma sono andati progressivamente dissolvendosi gli stessi presupposti fondativi dell’ordine liberale stabilitosi nel secondo dopoguerra sotto la guida egemonica statunitense ed estesosi all’intero globo dopo la fine della Guerra Fredda. Una consapevolezza e una dissoluzione graduali, che hanno favorito l’ascesa di ideologie antiglobaliste trasversali a quasi tutti i sistemi partitici d’Occidente: in questi termini Arlo Poletti illustra il fenomeno nel saggio Antiglobalismo (il Mulino, 2022), osservando come l’avversione al globalismo si manifesta oggi nelle opinioni e attitudini individuali, nelle proposte politiche di partiti dominanti, nei comportamenti dell’elettorato e persino in alcune istituzioni internazionali globali ‘insospettabili’, come l’Organizzazione Mondiale del Commercio e la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Vediamo come il libro di Poletti ci aiuta a comprendere l’attualità.

 

Qualche dato. I cittadini europei che percepiscono negativamente la globalizzazione sono aumentati dal 29 al 34,5% tra il 2003 e il 2019, situandosi tra il 30 e il 70% in Paesi come la Danimarca, la Svezia e il Portogallo. Lo studio dei manifesti elettorali indica, inoltre, che i sistemi di partito hanno spostato il loro baricentro verso posizioni sempre più marcatamente antiglobaliste, mentre i partiti di impronta nazionalista con inclinazioni autarchiche hanno conquistato nell’ultimo ventennio un peso elettorale medio superiore al 20%. Infine, un’indagine condotta dallo stesso Poletti insieme a Marcel Hanegraff ha rivelato che all’aumentare del grado di globalizzazione tende a crescere il peso relativo dei gruppi d’interesse nazionale proprio in quelle istituzioni che dovrebbero preservare un certo grado di universalismo, come la già citata OMC e la Convenzione quadro.

 

1. Variazione temporale del posizionamento medio dei partiti Europei (UE15) secondo l’indice «nazionalismo e autarchia» (protezionismo, istituzioni internazionali, integrazione europea, multiculturalismo, nazionalismo, valori tardizionali, costituzionalismo, democrazia e diritti umani). L’antiglobalismo incrementa nel tempo. Dati raccolti nell’ambito del Manifesto Project ed elaborati da Arlo Poletti. (Fonte: Arlo Poletti, Antiglobalismo: le radici politiche ed economiche, Bologna, Il Mulino, 2022.)

 

Variazione temporale della percentuale media di voto dei partiti con
posizioni antiglobalisti secondo l’indice «nazionalismo e autarchia» nei paesi
UE15 (protezionismo, istituzioni internazionali, integrazione europea,
multiculturalismo, nazionalismo, valori tardizionali, costituzionalismo,
democrazia e diritti umani). Dati raccolti nell’ambito del Manifesto Project ed
elaborati da Arlo Poletti. (Fonte: Arlo Poletti, Antiglobalismo: le radici
politiche ed economiche, Bologna, Il Mulino, 2022.)

 

3. Percentuale dei gruppi di interesse «globali» per livello di globalizzazione.
(M. Hanegraaff e A. Poletti, The Stakeholder Model Paradox: How the
Globalization of Politics Fuels Domestic Advocacy, in «Review of
“Studies», vol. 44, 2018, n. 2, pp. 367-391.) (Fonte: Arlo Poletti,
Antiglobalismo: le radici politiche ed economiche, Bologna, Il Mulino, 2022.)

 

Pochi, significativi fatti. Si tratta di una sintomatologia da cui affiora chiaramente un quadro di tensioni tra il vecchio ordine, iperglobalizzato, e un ordine nuovo, ma non ancora compiutamente attuale, di globalismo mitigato o ‘riformato’. Alcune notizie recenti ne danno conferma.

 

 

Cosa spiega questi fatti di cronaca economica e di politica internazionale?

 

Una definizione. L’autore ci indirizza verso una risposta, ma occorre preliminarmente dare una definizione di «antiglobalismo». Si tratta, come precisa Poletti, di un concetto che attraversa economia, sociologia e politologia e che in buona sintesi indica l’atteggiamento di chi si oppone alla costruzione o al consolidamento dell’ordine ‘globale’, ossia di un sistema, variamente istituzionalizzato, di interdipendenze politiche, economiche, culturali e sociali che attraversano i confini degli Stati-nazione.

 

Gli USA tra declino egemonico e antiglobalismo. A partire dal secondo dopoguerra gli Stati Uniti gettano le fondamenta dell’ordine globale così come lo conosciamo oggi, promuovendo la costruzione di uno spazio commerciale aperto e interconnesso e favorendo, dopo la fine della Guerra fredda, l’integrazione di Russia, Cina e altre potenze emergenti nell’architettura del sistema internazionale degli scambi. Dopo la crisi finanziaria del 2007-2008, inizia, tuttavia, il dissolvimento della leadership internazionale statunitense: gli USA sono costretti ad abbandonare il ruolo di «superpotenza solitaria» proprio in virtù di quello stesso ordine internazionale che essi hanno nel corso dei decenni costruito e promosso, e che ha determinato, alla fine, l’affermazione di altre potenze dell’economia e del commercio, prima fra tutte la Cina. La politica americana è divenuta, così, via via più sensibile alla seduzione del protezionismo e del nazionalismo economico: «negli ultimi due decenni, con maggiore o minore forza a seconda delle caratteristiche specifiche dei leader in carica, gli Stati Uniti hanno iniziato un percorso di graduale disimpegno dall’ordine liberale internazionale» – spiega Poletti – mostrando uno scetticismo sempre più marcato verso il globalismo e le sue istituzioni.

 

Le cause economiche e tecnologiche: declino delle classi medie, concorrenza commerciale, delocalizzazione del lavoro e automazione. Se i fattori politici dell’antiglobalismo riguardano in primo luogo una redistribuzione del potere relativo sullo scenario internazionale – nella fattispecie tra USA e Cina -, quelle economiche chiamano in causa il conflitto sempre più acuto tra «vincitori» e «perdenti» della globalizzazione. L’interconnessione delle economie nell’ordine globale ha accresciuto ricchezza aggregata ed efficienza, ma ha allo stesso tempo dato luogo a fenomeni di incertezza e impoverimento che hanno spinto larghi settori del corpo sociale a sostenere i partiti antiglobalisti. La progressiva erosione delle classi medie, unita a una sempre più marcata concentrazione della ricchezza, ha reso via via più seducente il cosiddetto «paradigma del nazionalismo economico», che combina promesse di alleggerimento fiscale (minore tassazione), protezionismo e dura restrizione dei flussi migratori.

Variazione del reddito reale tra il 1998 e il 2008 per ogni percentile di
reddito della popolazione mondiale. (Branko Milanović, World Bank, 2012.)
(Fonte: Arlo Poletti, Antiglobalismo: le radici politiche ed economiche,
Bologna, Il Mulino, 2022.)

 

A ciò si aggiunge l’emergere della Cina come leader indiscusso della produzione manifatturiera a basso costo orientata all’export: «La crescita strepitosa della capacità produttiva industriale cinese combinata con la sua integrazione nell’OMC, ha rappresentato uno shock esogeno che non ha precedenti nel periodo successivo al secondo dopoguerra e che ha aumentato enormemente il grado di esposizione alla concorrenza internazionale dei settori produttivi industriali meno competitivi […]». Sono rimaste sul mercato poche grandi aziende particolarmente produttive, mentre ne sono state espulse le piccole e medie aziende esportatrici più esposte alla concorrenza cinese. A ciò è seguita una riduzione dell’occupazione nei settori manufatturieri, una graduale diminuzione dei redditi reali e un aumento delle diseguaglianze tra lavoratori specializzati e non. Numerosi studi rilevano una stretta correlazione tra aumento delle esportazioni cinesi e ascesa dell’antiglobalismo.

Anche la delocalizzaizone delle catene produttive, prospettando per circa un quarto dei profili occupazionali occidentali una concorrenza internazionale sempre più severa, ha favorito un sostegno ideologico sempre più ampio alle politiche di segno protezionistico.

Infine, l’automazione del lavoro, e la connessa disoccupazione tecnologica, effettiva o temuta, ha diffuso un senso di precarietà tra coloro che svolgono mansioni sostituibili, che si è tradotto in un sempre più convinto appoggio ai partiti antiglobalisti. Alcuni studi hanno rilevato negli USA e in Europa una correlazione robusta tra rischio occupazionale legato all’automazione e consenso a formazioni di destra, anche radicali.

 

 

.Esposizione alla robotizzazione e voto per trump. (C.B. Frey, T. Berger e C. Chen, Political Machinery: Did Robots Swing the 2016 US Presidential Election?, in «Oxford Review of Economic Policy», vol. 34, 2018, n. 3, pp.) 418-442.” (Fonte: Arlo Poletti, Antiglobalismo: le radici politiche ed economiche, Bologna, Il Mulino, 2022.)

 

Incertezza e rassicurazione identitaria. I fenomeni economici legati alla globalizzazione, come spiega Poletti, hanno accresciuto la domanda di politiche redistributive e di sostegno da parte delle fasce «perdenti». La capacità ‘estrattiva’ degli Stati – la possibilità, cioè, di ricavare le risorse necessarie a finanziare il welfare – è, però, diminuita nel corso del tempo soprattutto per ragioni di competizione fiscale (necessità di evitare delocalizzazioni e fughe di imprese e capitali). Ciò ha minato la fiducia nella capacità degli Stati di mitigare le diseguaglianze sociali ed economiche in favore dei ceti maggiormente penalizzati dalla globalizzazione. Questa mancanza di fiducia ha favorito, secondo Poletti, «una fusione tra scontento economico e politica identitaria».

I fattori di incertezza economica stimolano una reazione culturale in direzione del nativismo e dell’autoritarismo, rafforzando il senso di appartenenza comunitario e la domanda di protezione. In altri termini, come scrive Poletti, «il richiamo identitario e nazionalistico trova terreno fertile laddove le condizioni materiali, reali o percepite, degli individui sono precarie, e laddove non vi sono ragionevoli aspettative che la mano dello Stato intervenga ad alleviare tale situazione».

 

 

 

Aliquote d’imposta sulle società nell’UE. Il carico fiscale si è progressivamente spostato verso lavoro e consumi. (Fonte: Arlo Poletti, Antiglobalismo: le radici politiche ed economiche, Bologna, Il Mulino, 2022.)

È possibile conciliare iperglobalizzazione, sovranità e democrazia? Può uno Stato pienamente sovrano garantire il libero confronto democratico, pur partecipando allo scenario globale? La globalizzazione lede la democrazia e l’esercizio di una piena sovranità da parte degli Stati? Poletti richiama in prima battuta la teoria di Dani Rodrik, economista turco e docente a Harvard, secondo cui democrazia, sovranità nazionale e integrazione economica globale sono reciprocamente incompatibili: è possibile conciliare di volta in volta due delle tre situazioni, ma mai averle tutte e tre allo stesso tempo in forma compiuta. Poletti mostra, però, come esista un livello ‘ottimale’ di globalizzazione capace di favorire sovranità nazionale e democrazia. I benefici della globalizzazione – in termini di maggiore efficienza e ricchezza aggregate – consentono agli Stati di ottenere le risorse necessarie a  finanziare le politiche pubbliche e, dunque, a sostanziare e rendere effettivo il funzionamento della democrazia. Questo permette, inoltre oltretutto, di salvaguardare un certo grado di autonomia decisionale rispetto alle politiche interne, attenuando la morsa dei vincoli imposti allo Stato ‘dall’alto’ e tutelando così l’esercizio della sovranità nazionale. Superato certo un punto, tuttavia, queste relazioni si invertono: un livello di globalizzazione spinto all’estremo riduce sia i margini di sovranità sia la democrazia interna

 

 

 

 

Esprime la relazione tra sovranità, globalizzazione e democrazia. Esiste un grado di globalizzazione ‘ottimale’ che massimizza democrazia e sovranità. (Fonte: Arlo Poletti, Antiglobalismo: le radici politiche ed economiche, Bologna, Il Mulino, 2022.)

Il conflitto tra partiti sovranisti e istituzioni europee e gli appelli – da parte di attori economici di rilievo – per un intervento a protezione dei loro interessi contro l’aggressività cinese suggeriscono, tuttavia, che la globalizzazione è ancora distante da suo quantum ottimale. Quale soluzione? Secondo Poletti «non può esistere una globalizzazione più intelligente senza qualche forma di indirizzo politico e quest’ultima non potrebbe materializzarsi laddove la competizione tra Stati Uniti e Cina dovesse fare venire meno qualsiasi spazio di cooperazione a livello globale. La strutturazione dell’assetto internazionale in un assetto che somigli a un ordine tripolare con l’Unione Europea dedita a giocare un ruolo di mediazione tra i due blocchi potrebbe ridurre qusto rischio in maniera significativa […]». Perciò, coordinamento politico internazionale e ruolo di mediatore da parte dell’Unione Europea nel contesto della crescente competizione sino-americana come fattori di riequlibrio dell’ordine globale. Uno scenario possibile dopo gli sconvolgimenti della guerra russo-ucraina? Cercheremo di rispondere in un prossimo appuntamento di questa rubrica, di nuovo interrogando un libro.

Un grafico e un libro è una nuova rubrica che esce tendenzialmente il venerdì  ma non è detto tutti i venerdì. Come la possiamo definire? Una recensione con didascalia intelligente.