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cronaca

Covid-19: quanti lavoratori sono a rischio? Sei milioni e mezzo (se escludiamo sanità e commercio alimentare)

Fra i lavoratori nelle posizioni più a rischio, per esposizione a malattie o prossimità alle altre persone, diversi restano oggi al loro posto perché in settori indispensabili.. Si tratta di un lavoro utile per capire non solo chi sono queste persone al momento, ma anche quali settori e attività potranno riaprire una volta passata la fase acuta dell’emergenza.  Un’analisi pubblicata dalla Banca d’Italia, “presenta una mappa della dimensione di rischio degli occupati italiani”.

Gli autori hanno catalogato i lavori in base a due fattori diversi, la vicinanza fisica alle altre persone e l’esposizione a malattie e infezioni, trovando che nel primo caso i campi più a rischio comprendono l’istruzione (in particolare per i bambini più piccoli), studi odontoiatrici, farmacie, bar, alcune attività commerciali e sportive. Nel secondo, come c’era da aspettarsi, compaiono servizi veterinari e ospedalieri, di nuovo gli studi odontoiatrici, insieme all’assistenza residenziale e ancora l’istruzione per bambini.

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Informazioni sul rischio di contagio professionale”, ricordano gli autori, “sono essenziali nella prossima fase di uscita graduale dal lockdown per selezionare le attività da riaprire prima e per individuare i settori in cui è necessario prendere misure di sicurezza particolarmente rafforzata. Un’indicazione utile, anche se parziale perché non può tenere conto delle effettive condizioni di lavoro del singolo lavoratore, deriva dalle caratteristiche delle figure professionali che operano nei 600 settori italiani, ottenute dai dati dell’Indagine campionaria sulle professioni ICP condotta da INAPP, e incrociate con i microdati Istat della Rilevazione sulle forze di lavoro (RFL), disponibili fino al terzo trimestre del 2019”. Gli indicatori che consentono di misurare i rischi dovuti all’esposizione a malattie e infezioni o alla prossimità fisica in ciascuna attività professionale sono derivati direttamente da due domande specifiche poste nell’indagine.

Quanto a contatti interpersonali la manifattura si trova intorno ai valori medi, per quanto con grossa variabilità fra i diversi prodotti, mentre nell’agricoltura troviamo un settore che ne richiede meno. Escludendo i servizi sanitari e il commercio alimentare, sottolinea lo studio, i lavoratori in aree dove l’indice di prossimità è superiore alla media nazionale sono sei milioni e mezzo, ovvero circa il 28% del totale.

I lavoratori che rischiano il contagio da COVID-19, d’altra parte, sono principalmente uomini di età superiore ai 50 anni ma quanto meno in settori “concentrati prevalentemente in settori poco esposti alla vicinanza fisica (come l’agricoltura), o che sono attualmente chiusi, o che hanno la possibilità, almeno in linea di principio, di lavorare a distanza (ad esempio, i lavoratori della pubblica amministrazione e di alcuni comparti dell’istruzione)”. È importante sottolineare che quella del lavoro a distanza può essere una possibilità teorica, ma non in tutti i casi può davvero concretizzarsi in poco tempo e senza difficoltà di transizione.

D’altra parte mettendo insieme i risultati di alcune domande contenute nell’indagine ICP è possibile costruire un indicatore che misura la possibilità di lavorare da remoto, da cui risulta che a essere più favoriti in questo senso sono i servizi finanziari, bancari e assicurativi, la pubblica amministrazione, la maggior parte dei servizi professionali. I settori chiusi dalle misure impiegavano invece un minor numero di persone che avrebbero potuto lavorare da remoto, mentre gli autori suggeriscono che coloro che non si sono recati sul luogo di lavoro, perché avevano, almeno in linea di principio, la possibilità di lavorare da casa siano circa tre milioni in più di quelli direttamente interessati dal fermo delle attività”.

La stima del documento è che i provvedimenti dell’11 e 22 marzo abbiano interessato quasi otto milioni di persone, ovvero fino a circa un lavoratore su tre. La prima misura è stata più ristretta e ha colpito 2,8 milioni di occupati, la seconda invece ha avuto natura più ampia. In settori essenziali come la sanità, dove il rischio di esposizione è ben elevato, l’attività è naturalmente proseguita.