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tecnologia

Musica: più ricavi dallo streaming ma poco spazio per le startup

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Le startup musicali puntano sullo streaming. Ma non è ancora chiaro quale sia la strada per sbloccare l’ostacolo di sempre: realizzare profitti da un fenomeno che non smette di crescere, almeno nei suoi numeri generali. Un colosso come la svedese Spotify ha appena annunciato di aver raggiunto il picco di 40 milioni di utenti e aver versato un totale di 5 miliardi di royalties. Sullo sfondo, secondo dati della Federazione industria musicale italiana (Fimi) i ricavi da streaming sono cresciuti solo l’anno scorso del 45,2% su scala globale e di quattro volte tanto in cinque anni fino alla quota attuale di 2,89 miliardi di dollari. L’Italia non fa eccezione: rialzo del 63% nello stesso 2015, con 26,3 milioni di fatturato e una fetta del 20% di consumatori a pagamento.
Peccato che, finora, i player siano pochi e i risultati fermi. Da un lato, un bacino globale di circa 100 milioni di utenti for pay è spartito tra solo sette (ex) startup del calibro di Spotify (si legga sopra), Sirius (30 milioni), Deezer (6 milioni), Pandora (4 milioni), Napster (3,5 milioni) e Tidal (3 milioni), oltre al mondo a sé di Apple Music (17 milioni). Dall’altro, l’ascesa di utilizzo e traffico non si traduce ancora in un modello redditizio. La stessa Spotify ha chiuso il 2015, «il migliore anno della sua storia», con ricavi che sfiorano i 2 miliardi di euro ma perdite da 173 milioni.
Secondo Adriano Marconetto, ex di Vitaminic e attuale Ceo della startup torinese di stereo ad alta qualità Yar, l’ascesa dello streaming è comunque un processo «inarrestabile». Ma i tempi di maturazione potrebbero essere ancora lunghi: in un’intervista al portale Digital Music News, il Ceo della piattaforma di musica online oneRpm Emmanuel Zunz ha fissato a 200 milioni di utenti paganti – il doppio di oggi – la soglia per dire addio ai contenuti gratis. «Penso che il modello di streaming necessiti di tempo per essere digerito da tutti – conferma Marconetto – oggi sono meno le persone che fanno uso delle piattaforme di quante non comprassero dischi». La via d’uscita, anche per la creazione di nuove imprese? Marconetto la individua nella «ingegnerizzazione dei modelli di business»: semplificare il sistema di distribuzione e pagamento della musica online, per garantire ricavi e diritti ad artisti, case discografiche e le stesse piattaforme del web. Non è un caso se le iniziative italiane di settore si muovano proprio sul confine tra diritti d’autore e gestione indipendente dei propri contenuti: dal monitoraggio antipirateria di Digital Content Protection al registro indipendente di Patamu, passando per la sfida alla Siae dell’italo-britannica Soundreef. Uno spiraglio in più potrebbe aprirsi con la riforma del copyright che sarà discussa in Commissione europea il prossimo 22 settembre. Tra i punti salienti del testo c’è una maggiore protezione dei diritti d’autore per ridurre il value gap, lo scarto tra il valore generato da contenuti online e la quota ancora minima di ritorni per artisti ed etichette. L’auspicio di Enzo Mazza, presidente Fimi, è che la direzione sia quella di un “modello Spotify” dove i contenuti sono diffusi in maniera regolamentata. Anche se l’attesa per i profitti richiederà tempo: «Il nostro augurio è che siano applicate le stesse condizioni a tutte le piattaforme di streaming del web – dice Mazza – È vero, i ricavi sono pochi ma trend sta già crescendo e si consoliderà. Il futuro è quello».

Articolo uscito a pagina 33 del Sole 24 Ore del 20 settembre 2016