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cronaca

I gatti randagi se la passano male, peggio dei cani, in Italia

In Italia la presenza di strutture di accoglienza per i gatti randagi è assai più esigua di quella dei canili sanitari o dei rifugi per cani. Nel 2017, secondo l’ultimo rapporto nazionale della LAV, risultano 61.878 colonie feline e 101 gattili. Nel meridione vi è al momento una scarsa attenzione generale al tema del randagismo felino: sono solo 7.934 le colonie registrate contro le 53.944 del centro-nord (29.655 colonie al nord e 24.289 nel centro), per un totale di poco meno di 15.000 gatti sterilizzati all’anno, contro i poco più di 54.000 del Centro-Nord. I gattili poi sono rarissimi: solo 7 in tutte le regioni del sud, contro i 54 del Nord e i 40 delle regioni del Centro.
Il primato è detenuto dalla Lombardia, con 14.083 colonie. Seguono il Lazio (11.683), il Veneto (6.777), la Toscana (6.412) e l’Emilia-Romagna (6.320). La Lombardia è anche la regione dove si sterilizza il maggior numero di gatti (13.159), al secondo posto troviamo il Veneto (9.538), il Lazio (8.833) e la Campania (5.258). In ogni caso il numero complessivo di sterilizzazioni rimane esiguo: si contano solo 69.094 sterilizzazioni regolari in tutta Italia nel 2017.
Qual è la differenza fra gattili e colonie? I gattili sono strutture chiuse – per esempio edifici con cortili – all’interno delle quali i mici vivono accuditi da personale volontario e da cui non possono uscire. Sono realtà simili ai canili rifugio, che prevedono la presenza di un veterinario, di aree separate per i gatti malati e in cura, di zone dove preparare i pasti, di magazzini, e via dicendo. Altra cosa sono le colonie feline, aree non chiuse ma con strutture coperte a cui un gruppo di gatti formato spontaneamente fa riferimento per trovare rifugio e cibo, solitamente offerto da personale volontario. Sebbene esista una legge, la legge 281 del 91 in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo, essa non prevede l’obbligo di un certo numero di gattili per regione.
Si tratta in ogni caso di numeri provvisori. I dati che sono stati forniti alla LAV dalle regioni sulle colonie feline sono scarsi e incompleti. “Alcune Regioni non ne conoscono il numero – si legge nel rapporto – poiché non vi è un censimento o non è aggiornato al 2017, o ancora il censimento e la gestione delle colonie feline sono effettuati dai Comuni e non sussiste l’obbligo di rendicontazione alla Regione. Nello specifico Basilicata, Calabria, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Puglia e Sardegna non hanno fornito alcun dato relativo alle colonie feline presenti sul loro territorio. Il Piemonte ha fornito dati non utilizzabili.
C’è poi l’esercito di randagi, di cui non si è in grado di fare una stima. Ma come si può mettere in campo un’azione di contenimento del fenomeno senza sapere la consistenza del fenomeno stesso?
Per i gatti il problema del microchip assume dimensioni molto maggiori che per i cani. Per i felini identificazione e iscrizione all’anagrafe degli animali d’affezione non sono obbligatorie, se non per i gatti che si recano all’estero e prima della cessione a qualsiasi titolo, quindi anche nel caso di adozione e per quelli appartenenti alle colonie feline. In altri paesi europei le cose vanno diversamente: in Francia dal 2012 tutti i gatti dai 7 mesi devono possedere il microchip (quelli in vendita vanno registrati prima dei 7 mesi), in Slovacchia e in diverse regioni della Spagna è previsto l’obbligo di microchip. “Se i gatti fossero identificati con microchip e iscritti in anagrafe degli animali d’affezione – si legge ancora nel rapporto – ne sarebbe garantita la tracciabilità e in caso di smarrimento sarebbe più facile ricondurli alla loro famiglia. Anche le amministrazioni comunali ne trarrebbero vantaggio in quanto in caso di soccorso, una volta individuato il detentore, le spese sarebbero a suo carico e non si porrebbe il problema della futura destinazione dell’animale.”