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cronaca

Per tre persone su dieci la disinformazione non è un grosso problema. Ed è questo il problema

Secondo i dati dell’ultimo sondaggio del Pew Research Center, condotto nella primavera del 2025 circa sette italiani su dieci considerano la disinformazione online la principale minaccia. Seguono la paura per il cambiamento climatico e per il terrorismo.

Sembra impossibile ma in media ci fanno apparentemente più paura la disinformazione e il cambiamento climatico del terrorismo, delle malattie infettive, della situazione economica. Lo stesso vale nel complesso negli altri 24 paesi esaminati dal sondaggio, fra i quali Germania, Regno Unito, Stati Uniti, Corea del Sud, Paesi Bassi, Polonia e Svezia: la preoccupazione per le notizie false supera quella per qualsiasi altra questione.

Sembra un dato positivo, ma forse dovremmo ribaltarlo. Il problema è quel 30% di cittadini, uno su tre, che non vede la disinformazione come una minaccia. Nel 2022, prima dell’esplosione dell’IA generativa, le “fake news” (o chi le chiama ancora così?) erano già un grosso problema; oggi, nel 2025, ignorarne la portata è molto più rischioso. La diffusione delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale ha rivoluzionato l’accesso all’informazione, amplificando i rischi di disinformazione, deepfake e manipolazione algoritmica. Le piattaforme digitali, con il loro potere di modellare l’opinione pubblica, pongono sfide importanti in termini di trasparenza e responsabilità. L’ultimo rapporto dell’OCSE sull’analfabetismo funzionale, pubblicato il 10 dicembre 2024 mostra che un terzo degli adulti italiani fra i 16 e i 65 anni non riesce a comprendere un testo complesso. Diciamolo meglio: il 35% degli adulti italiani ha raggiunto un punteggio pari o inferiore al livello 1, su 5. Il livello 1 significa comprendere brevi frasi o elenchi chiari e organizzati. All’estremo opposto, appena il 5% degli adulti (media OCSE 12%) raggiunge i livelli più alti, 4 o 5, e può essere considerato un high performer. Queste persone sono in grado di leggere e interpretare testi lunghi e complessi, individuare significati impliciti e utilizzare le proprie conoscenze per affrontare compiti articolati.

Che cosa sta cambiando?

Pew Research aggiorna questo sondaggio da diversi anni, tracciando l’evoluzione delle percezioni collettive (noi di Infodata ne abbiamo scritto diverse volte). L’ultima rilevazione mostra un cambiamento significativo: le minacce percepite mutano nel tempo. Se questioni come il cambiamento climatico e le pandemie restano rilevanti, oggi gran parte delle persone considera prioritarie la disinformazione digitale, l’instabilità economica e il terrorismo. Lo studio evidenzia inoltre che le paure globali non sono uniformi: variano a seconda della regione, del reddito nazionale, dell’età, del livello di istruzione e dell’orientamento politico. Il quadro che ne emerge suggerisce come le percezioni pubbliche siano modellate tanto da fattori locali e culturali quanto da eventi globali, offrendo uno strumento utile per comprendere tensioni sociali e politiche contemporanee.
Età e orientamento politico influenzano in modo marcato la percezione del rischio. Gli adulti sopra i 50 anni tendono a percepire la disinformazione come più pericolosa rispetto ai giovani. Anche il colore politico incide: in numerosi paesi, chi si colloca a sinistra vede le informazioni false come una minaccia più grave rispetto a chi si posiziona a destra.
Il sostegno ai partiti populisti influisce ulteriormente sulle percezioni. In Europa, i sostenitori di partiti populisti di destra mostrano generalmente meno preoccupazione rispetto ai non sostenitori. Al contrario, chi appoggia un partito populista di sinistra manifesta una maggiore apprensione rispetto ai non sostenitori.

Abbiamo davvero coscienza dei pericoli?

Subito dopo nella classifica delle ansie globali viene la condizione dell’economia mondiale. Il dato interessante è che in tutti gli altri paesi ricchi europei esaminati, dal 2017 a oggi la percezione di un’economia insicura è cresciuta fino a raggiungere il 70% delle persone preoccupate, mentre in Italia non sembrano essersi verificati cambiamenti. Nel 2017 anni fa la metà degli intervistati si diceva preoccupata e 8 anni dopo la percentuale è la stessa. Va osservato però che nel 2017 la fetta dei tedeschi, dei francesi, degli olandesi e degli svedesi preoccupati per l’economia era molto inferiore.

Il terrorismo resta una preoccupazione rilevante, soprattutto nei Paesi a reddito medio. In queste nazioni circa otto persone su dieci lo percepiscono come una minaccia grave, mentre nelle economie avanzate il dato scende a sei su dieci. Il livello di preoccupazione varia anche con l’età, il livello di istruzione e l’orientamento politico: persone più anziane, con minore scolarizzazione e orientate a destra sono più propense a considerarlo un rischio prioritario.

Non abbiamo ancora capito che da clima e malattie infettive dipende tutto

Il cambiamento climatico continua a preoccupare, ma con un peso percepito inferiore rispetto alle prime tre minacce. In particolare nel nostro paese negli ultimi 3 anni, dal 2022, il 10% di persone in meno considera il cambiamento climatico un problema serio: erano l’83% nel 2022, sono il 71% oggi. Effetto della politica? In Italia il clima è un problema serio per il 65% di chi si posiziona a destra e per l’80% di chi si posiziona a sinistra.
Su questo gli Stati Uniti si distinguono decisamente rispetto al resto dei paesi ricchi: solo la metà degli intervistati lo considera un problema serio (contro il 70% degli italiani e degli spagnoli, o il 78% dei francesi).

Per quanto riguarda infine le malattie infettive, la percezione del loro pericolo è in calo rispetto ai picchi registrati durante la pandemia di COVID-19. Tuttavia, noi italiani restiamo tra i più preoccupati tra i paesi ricchi: sei persone su dieci le considerano una minaccia seria, contro solo la metà negli Stati Uniti. I dati scientifici sulla diffusione dei patogeni e sulla resistenza agli antibiotici indicano invece che il rischio è concreto e comporta pesanti conseguenze economiche. Solo per l’area economica europea, il costo annuo dell’antimicrobico resistenza arriva a 11,7 miliardi di euro: 6,6 miliardi derivano dalle spese sanitarie aggiuntive necessarie per curare le infezioni resistenti e le loro complicazioni, mentre 5,1 miliardi corrispondono alle perdite economiche legate alla ridotta partecipazione al lavoro, tra cui la perdita prematura di vite umane e la minore produttività causata da congedi per malattia prolungati.

Per approfondire. 

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