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economia

In una infografica i lavori più a rischio a causa dell’intelligenza artificiale

Immagina un grande carosello. Su ogni seggiola c’è un mestiere. Ogni tanto, un’intelligenza artificiale si avvicina e prova a sedersi al posto del lavoratore. Se la seggiola è esposta – perché i compiti sono ripetibili, testuali, prevedibili – l’IA potrebbe riuscirci. Se invece quel mestiere vive di contatto umano, di decisioni improvvise o di mani che sporcano la realtà, la seggiola resta occupata.

 

Secondo uno studio di Microsoft Research riportato da Visual Capitalist, l’intelligenza artificiale è già in grado di replicare una parte rilevante delle attività svolte in molti mestieri cognitivi. Nella classifica dei quaranta lavori più “esposti” compaiono figure come interpreti, traduttori, redattori, storici, addetti al customer service, sviluppatori web, analisti di dati, venditori e relatori pubblici. In cima, con oltre il 90% delle mansioni potenzialmente automatizzabili, ci sono proprio gli storici: raccogliere, sintetizzare e riassumere testi, spiegano gli autori dello studio, è ciò che le IA fanno già meglio di molti umani.

Il paradosso è che questi sono i lavori più digitalizzati, cioè quelli dove l’IA può essere applicata con facilità. Tradurre, scrivere, analizzare dati o redigere testi è per le macchine come respirare: un compito scalabile, economico e senza pausa. Alcuni ruoli, come l’operatore di call center, contano milioni di lavoratori nel mondo e sono quindi anche tra i più sensibili alle spinte di produttività generate dai chatbot. Ma “esposizione” non significa “estinzione”. Significa che molti compiti – e quindi parte del valore aggiunto – possono essere eseguiti da un algoritmo.

All’estremo opposto, ci sono i mestieri che l’IA non riesce nemmeno a imitare: lavori fisici, imprevedibili, relazionali. Idraulici, muratori, elettricisti, infermieri, assistenti personali. Chi opera in ambienti non digitalizzati o a contatto con il corpo e le emozioni resta fuori dalla portata dell’automazione. In questi casi non serve un modello linguistico ma un corpo, un tatto, una capacità di leggere situazioni non codificate.

Le cifre aiutano a capire la portata del fenomeno. Secondo i modelli più recenti pubblicati su arXiv, circa un terzo dell’occupazione statunitense è fortemente esposta all’IA. Altri studi parlano di un 50% dei lavori d’ufficio o d’ingresso nel settore cognitivo soggetti a riqualificazione nei prossimi anni. Ma la realtà è meno omogenea di quanto suggeriscano i numeri: l’adozione dell’IA varia per settore, per capitale disponibile, per cultura aziendale. Non tutti i lavori vulnerabili sulla carta sono effettivamente minacciati nella pratica.

L’automazione non è un interruttore che spegne i mestieri, ma una pressa che li deforma. L’esempio classico è quello dei bancomat: dovevano eliminare i cassieri, ma ne hanno cambiato il ruolo. Hanno liberato tempo per attività di consulenza, relazione e vendita. Lo stesso potrebbe accadere con l’IA. In molti casi l’algoritmo non sostituisce, ma affianca. Riduce la fatica nei compiti ripetitivi e apre spazio per la parte più umana del lavoro: interpretare, decidere, immaginare.

Chi si trova su quel carosello in rapido movimento può fare tre cose. Riqualificarsi nelle competenze che le macchine non possiedono – pensiero critico, gestione del cambiamento, intelligenza emotiva. Imparare a usare l’IA come strumento di potenziamento, non come minaccia. E osservare con attenzione dove si muove davvero il mercato: non nei grafici, ma nelle aziende che stanno adottando concretamente queste tecnologie.

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