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scienze

Che cos’è l’AI veganism e che ne sarà di noi

 

Negli anni intorno al 2010, in molti – inclusa chi scrive – avevano scelto di non aprire alcun profilo sui social media. Facebook era già in crescita, ma non c’era ancora un reale bisogno di esserci. Per il lavoro, non era indispensabile; per la vita sociale, nemmeno. I social erano percepiti come intrattenimento facoltativo, e per qualcuno, come un terreno da evitare. Certo, già allora c’era chi li usava per scoprire contenuti stimolanti, seguire discussioni di nicchia o creare piccole community, ma si trattava di una minoranza.
Nel giro di pochi anni la situazione si è evoluta. Twitter, Instagram, e soprattutto LinkedIn sono diventati spazi quasi obbligatori per chi lavora nella comunicazione, per chi vuole condividere i risultati del proprio lavoro, promuovere un’attività o vendere un prodotto. Oggi sono pochissimi a non avere alcuna presenza digitale, e chi decide di “uscire dai social” lo fa di solito perché ha già una carriera consolidata o perché fa parte di un’organizzazione in grado di comunicare in autonomia.

Questa dinamica – dalla novità di nicchia alla diffusione di massa – è quella che descrive il ciclo di vita dell’adozione tecnologica: prima arrivano gli innovatori, poi gli early adopters, poi la maggioranza e infine i ritardatari. Un copione che si è ripetuto con molti strumenti, dalla posta elettronica agli smartphone, fino all’abbandono progressivo della scrittura a mano dopo l’arrivo dei computer domestici.

Sarà così anche per l’IA? Ancora una volta il discorso pubblico sull’IA è dominato dalle grandi aziende tecnologiche, che spingono sull’idea che non adottarla significhi restare indietro. Mark Zuckerberg, ad esempio, ha dichiarato che chi non indosserà occhiali intelligenti dotati di IA si troverà in uno “svantaggio cognitivo significativo” in un futuro di “superintelligenza”. Il messaggio è chiaro: il treno sta partendo, e chi non sale rischia di restare a piedi. (Consigliamo la lettura dell’intero post di Zuckerberg che si trova qui)

Un’adozione che non è scontata

L’intelligenza artificiale sembrerebbe destinata a seguire lo stesso schema, ma c’è chi ritiene che le cose potrebbero andare diversamente. È qui che entra in gioco il termine AI veganism: un’etichetta che sta circolando online per indicare chi sceglie di astenersi dall’uso dell’IA, proprio come un vegano si astiene dal consumare prodotti animali.
La differenza rispetto ad altre tecnologie è che non è detto che i “ritardatari” finiscano per adottarla. Alcuni di coloro che rifiutano l’IA appartengono a categorie che di solito sono tra le prime ad abbracciare le novità: studenti universitari, professionisti digitali, utenti abituati a sperimentare. Alcuni studenti dell’Università di Cambridge hanno dichiarato di non usare ChatGPT proprio per queste ragioni ambientali e per la diffidenza verso le Big Tech, non per motivi di cheating accademico.
Questo fenomeno può essere collegato a quella che in psicologia è chiamata avversione algoritmica: la tendenza a preferire decisioni prese da esseri umani piuttosto che da sistemi automatici, anche quando questi ultimi sono più accurati.

Perché ci si astiene? Questioni etiche

Nel veganismo, una preoccupazione etica riguarda il trattamento e l’uso degli animali. Nell’IA, riguarda il modo in cui vengono raccolti e usati i dati per addestrare i modelli. Molti utenti si dicono contrari al fatto che opere creative – testi, immagini, musica – siano utilizzate senza consenso o compenso per alimentare i sistemi di IA. È stato uno dei punti centrali degli scioperi del 2023 della Writers Guild of America e della Screen Actors Guild-American Federation of Television and Radio Artists, che hanno chiesto tutele legali contro l’uso non autorizzato delle opere dei creativi.
Mentre alcuni professionisti possono ottenere protezioni contrattuali, la maggior parte dei contenuti usati proviene da creatori indipendenti o amatoriali, privi di strumenti per difendere il proprio lavoro.

Impatto ambientale

Un’altra motivazione è l’impatto ecologico, analogo alle critiche all’allevamento intensivo per il suo contributo a deforestazione e gas serra. L’IA richiede enormi risorse per l’elaborazione dei dati: elettricità, acqua, infrastrutture. In Wyoming, per esempio, è in progetto un data center che da solo consumerà più energia di tutte le abitazioni dello stato messe insieme.
Chi ci guadagna però fa leva su un’altra narrazione. Sam Altman in un post del giugno 2025 titolato The Gentle Singularity è in linea ciò che scriveva Zuckerberg: l’umanità avrebbe ormai superato il “punto di non ritorno” verso la superintelligenza, ma che non sarà – a suo dire – un problema per l’ambiente. Ha fatto in conti: un singolo prompt su ChatGPT consuma in media 0,34 wattora, circa quanto un forno in poco più di un secondo, o una lampadina ad alta efficienza in due minuti. Consuma anche 0,000085 galloni d’acqua (circa un quindicesimo di cucchiaino), che secondo come legge questi dati Altman, significano efficienza a basso impatto di utilizzo su scala individuale. Il punto è che una query su ChatGPT consuma 10 volte più elettricità di una ricerca tradizionale su Google. Sempre la solita questione sul consumo di acqua risparmiato se tutti iniziassero a mangiare carne solo la domenica.

Benessere e salute cognitiva

Come alcuni vegani evitano certi alimenti per motivi di salute, altri rifiutano l’IA per timore che possa ridurre capacità mentali e creatività. Uno studio (ancora in pre-print) del MIT Media Lab ha monitorato 54 giovani adulti impegnati a scrivere saggi ispirati al SAT, divisi in tre gruppi: scrittura autonoma, scrittura con Google e scrittura con ChatGPT. Attraverso un EEG, i ricercatori hanno osservato che l’uso dell’IA portava a una minore attivazione cerebrale, a testi meno vari e più impersonali. Col passare delle prove, molti finivano per copiare integralmente le risposte del modello, sviluppando una dipendenza dallo strumento. Alla prova finale, chi aveva usato ChatGPT fin dall’inizio faticava a tornare a scrivere autonomamente, con un’attività cerebrale ridotta nelle aree legate a memoria e creatività. Gli autori hanno parlato di un possibile “debito cognitivo” (cognitive debt), pur precisando che il campione ridotto e le scelte metodologiche richiedono cautela nell’interpretazione.

Non sappiamo con esattezza quale sia la prevalenza di persone vegane o vegetariane sul pianeta, anche se questo paradigma esiste oramai da decenni. Il nuovo Rapporto Italia Eurispes riporta che oggi solo il 10% degli italiani non mangia carne: il 6,6% si identifica come vegetariano e il 2,9% come vegano. Quanti saranno i vegani dell’IA fra quarant’anni?

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