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cronaca

Per una persona su cinque che chiede aiuto allo psicologo il problema vero è il lavoro

Una nota piattaforma che mette in contatto specialisti nel settore della psicologia e l’utenza, Serenis, ha elaborato i dati di un sondaggio condotto su 3.000 loro utenti ed è emerso che una persona su cinque che cercava aiuto da uno specialista tramite la piattaforma denunciando come spinta lo stare male sul luogo di lavoro, in effetti sta male sul posto di lavoro. Che si tratti di mobbing, di disorganizzazione, di impossibilità di gestire il proprio tempo libero, di sovraccarico di mansioni, il problema è lì.

Questo dato si può leggere anche accentuando l’opposto, ossia: per quattro persone su cinque che invece imputano il proprio malessere al lavoro, in realtà la professione “triggera”, ossia accentua, delle difficoltà proprie della persona. L’80% dei pazienti che ha iniziato un percorso di psicoterapia denunciando difficoltà correlate al lavoro non ha ricevuto infatti una diagnosi di conferma. Fra le persone che si sono rivolte agli psicoterapeuti di Serenis dichiarando di avere delle difficoltà correlate al lavoro, in realtà il 37% soffre di disturbi d’ansia. Spesso si tratta di gestione non efficace, di problematiche ossessive che aumentano il carico di lavoro in modo eccessivo e che fanno percepire una responsabilità enorme rispetto alle reali mansioni, oppure di una scarsa capacità di concentrazione e di impulsività non diagnosticate nell’infanzia, che rendono molto difficile l’organizzazione del lavoro.
Il 22% contatta uno specialista perché intraprende un percorso legato alla crescita personale, il 19% vive una costante mancanza di autostima, il 17% ha problemi relazionali anche fuori dal lavoro, l’8% ha difficoltà a gestire lo stress, il 7% vive periodi di profonda crisi riguardo alla propria esistenza, il 4% ha un disturbo depressivo.

Ne parliamo con Martina Migliore, psicoterapeuta, che per Serenis si occupa della Direzione del comparto Formazione e Sviluppo.

Il primo aspetto interessante di questo sondaggio è la dimensione del campione e le sue caratteristiche. Si tratta di persone per lo più con meno di 35 anni che in oltre il 60% di casi non erano mai entrate in contatto con uno specialista della psicologia prima di usare questa piattaforma. Il processo è questo: quando un nuovo utente si iscrive viene richiesto di compilare un questionario che descrive la condizione che vive in quel momento – sia i sintomi attuali che pregressi – e che tipo di specialista vorrebbe incontrare. La piattaforma suggerisce quindi nominativi e curriculum di tre professionisti; l’utente sceglie colui o colei che ritiene migliore per lui, e viene preso il primo appuntamento. Da quel momento, se entrambe le parti decidono di continuare la relazione terapeutica, inizia il percorso. “Abbiamo incrociato i dati dei questionari degli utenti sulla propria salute percepita, con i questionari, chiaramente anonimi, che abbiamo chiesto di compilare ai terapeuti, per capire quanto in effetti le persone percepivano correttamente la fonte del proprio disagio” spiega Migliore. “Un esempio tipico sono per esempio le persone con problemi di fobia sociale, che hanno dunque difficoltà ad esporsi, e che si trovano in contesti lavorativi dove ciò viene richiesto. Durante i periodi di lockdown queste persone dichiaravano di essere state meglio, ma andando a fondo si capiva che non era la modalità di smart working aziendale a essere ben organizzata. Il benessere derivava dalla non necessità di vivere situazioni sentite come eccessivamente stressanti.”

In un caso su cinque il percorso con lo psicoterapeuta ha però effettivamente confermato che la fonte del malessere è il luogo di lavoro. “Un grosso problema che emerge chiaramente riguardo al come ci si sente sul luogo di lavoro è il bisogno di farsi vedere sempre disponibile perché più mi faccio vedere così e più valgo” spiega Migliore. “Chi di noi non conosce almeno un collega che si fa vedere online nelle chat di lavoro anche in ferie o che non riesce a non visualizzare la notifica per paura di perdersi qualcosa di importante e che va ad accumularsi nella lista di incombenze che attendono al rientro?

In 15 anni sono cambiate tante cose dal mio punto di vista dal punto di vista della gestione vita professionale/vita privata ma anche delle dinamiche stesse della quotidianità del lavoro, che mettono in difficoltà molti giovani” continua. Molti utenti della piattaforma lamentano di non saper gestire le dinamiche che si creano con i colleghi rispetto a ciò che questi esibiscono di sé, anche se andando a esaminare bene come stanno le cose si scopre che si tratta per lo più di apparenze, di impressioni che peraltro difficilmente sono verificabili in poco tempo.” E intanto si costruisce la sensazione di non essere altrettanto. “Nei giovani adultiparlo dei trentenni-quarantenni vedo poi molta confusione rispetto al proprio ruolo professionale, e a ciò che è ‘giusto’ essere disposti a fare per la carriera – prosegue Migliore. “Non era così per le generazioni appena precedenti, mentre oggi anche persone adulte si sentono di non riuscire completamente a inquadrare che cosa vogliono fare di preciso. Lamentano in primis una discrepanza fra ciò che hanno studiato, l’immagine della professione che avevano prima di entrare nel mondo del lavoro, e la cruda realtà, fatta per lo più di email, riunioni, competitività. Tutto questo unito a una mancanza di entuasiasmo che io noto distintamente in chi si chiede aiuto. Come se questi giovani si sentissero in dovere a intraprendere la strada ‘giusta’ anche se non sentono che è quella giusta per loro. Spesso il malessere parte da lì”.