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cronaca

Disuguaglianza, lavoro di cura e tempo delle famiglie. Cosa non dicono le statistiche sulla denatalità

Per la contemporaneità italica la denatalità è un problema. L’aspetto più curioso è che lo è per quasi tutti e tutte, ma il dibattito intorno a questo argomento è oggi incredibilmente piatto. Sono sostanzialmente tre i cavalli di battaglia che si ripuliscono per l’occasione: primo, che le ‘famiglie’ (il più delle volte si parla delle donne, in realtà) non vogliono più avere figli perché i entrambi partner sono troppo impegnati sul lavoro; secondo, per una sorta di mancata lungimiranza rispetto alle magnifiche sorti e progressive della patria; terzo, perché mancano strutture in grado di sostenere la famiglia lavoratrice nella gestione dei figli. Fra le righe si legge spesso il quarto problema – imputato alle donne – essere ‘troppo’ concentrate sulla propria carriera.

Vediamo qualche numero: nel 2020 ci sono stati 15 mila nati in meno rispetto al 2019. Un totale di 1,24 figli per donna. In nessuna provincia d’Italia oggi si raggiungono i 2 figli per donna, anche se a ben vedere è dal 1975 che non si registra un tasso di fecondità superiore a 2. Bisogna considerare infatti che il calo della natalità è iniziato fra il 1976 e il 1995, che significa che oggi ‘mancano all’appello’ le madri potenziali, cioè quelle donne che nel 2020 avrebbero fra i 25 e i 44 anni. Non è un tema solo italiano, ma che riguarda quasi tutti i paesi occidentali europei, con minor vigore per quelli che hanno sistemi di welfare sulla famiglia più forti.

Queste argomentazioni tuttavia poggiano su due presupposti che trattiamo come assiomi pur non essendolo, e che sono fra loro interconnessi: che la natalità dipenda unicamente dalle condizioni economiche delle famiglie, e che un figlio solo non basti ma che ne servano almeno due perché tutti viviamo meglio. Per le statistiche demografiche infatti un figlio per donna è troppo poco: è l’origine del problema, come se fosse ‘meno maternità’ avere un solo bambino. Ne consegue che nella maggior parte dei dibattiti pubblici si finisca per mettere nello stesso paniere le donne che non vogliono figli per varie ragioni con quelle che scelgono la maternità, ma preferiscono averne uno soltanto.
Quante volte ci siamo sentiti dire la frase fatta: «Da zero a uno ti cambia la vita, da uno a due abbastanza, da due a tre ti costa quasi uguale». Il punto è che avere un figlio oggi non significa solo poterlo mantenere, garantirgli il pranzo e la cena, abiti e accessori alla moda, e potergli pagare le attività pomeridiane. Significa darsi il tempo di ascoltarlo, di parlarci, di osservarlo mentre non se ne accorge. Di seguirlo per indirizzarlo in un mondo estremamente complesso. Serve tempo per i genitori, specie dei ragazzini, per capire che cosa il figlio legge, che siti web visita, che idee del mondo si sta facendo, che percezione ha dei rischi, ad esempio della rete. Questo tempo da dedicare raddoppia se i figli sono due, triplica se sono tre. Anche ci piace pensare di essere multitasking, oggi come ieri per queste attività serve tempo. È fuor di dubbio che la mancanza di risorse per la genitorialità, per gestire i figli mentre i partner lavorano, o per aiutare le famiglie a pagare i servizi di cui hanno bisogno, è cruciale. Ma non tutti gli aspetti della gestione dei figli si possono delegare completamente alla scuola o ai doposcuola.

Il paradosso narrativo sta qui: con una mano scriviamo (finalmente!) di batterci perché le donne lavorino a tempo pieno, siano indipendenti economicamente, istruite, che coltivino i propri hobbies, e che si mantengano in forma; con l’altra chiediamo loro di essere ‘resilienti’. Ma le vogliamo anche veramente serene? Né le donne né i figli sono tutti uguali: ci sarà chi riuscirà a gestirsi e organizzarsi benissimo con quattro figli, ci sarà chi si trova più in difficoltà con due. Si sprecano i sondaggi che mettono in luce la difficoltà gestionale nella gestione dei figli e del lavoro, ma su questo non ci indigniamo granché. La resilienza, in sostanza si traduce in una pressione nel dover (siccome puoi, allora devi provarci) riuscire a fare tutto al meglio, e di essere felice per questa skill incredibile che la Natura ti ha geneticamente donato (falso, peraltro). Salvo che poi, se qualcosa sfugge – e con i bambini e i ragazzi è fisiologico che sfugga – scatta il senso di colpa, personale e sociale.

La statistica Istat che veramente dovrebbe farci preoccupare è quella riguardante il lavoro di cura, ancora principalmente sulle spalle delle donne. Un rapporto di Save the Children del 2021 dal titolo ‘Le equilibriste’ riporta l’ultima rilevazione dell’“Indagine sull’Uso del tempo” (2014): i padri dedicano 2 ore al giorno ai figli, contro le 6 ore e mezza delle madri. I padri hanno trascorso in media 44 minuti al giorno a relazionarsi con i figli, mentre per le madri più di un’ora e mezza, con  22 minuti per giocare o parlare con loro.

Il secondo cavallo di battaglia è il noto: se nascono troppo pochi bambini, poi chi potrà mantenere una popolazione sempre più anziana? Nel 2050 si conta che un terzo della popolazione avrà più di 65 anni. Il problema è concreto: l’assistenza socio-sanitaria pubblica si sostiene con le tasse della forza lavoro. Meno forza lavoro significa meno risorse oppure tasse più pesanti. Anche qui però vale la pena soffermarsi sul fatto che parliamo di denatalità come l’eccezione moderna quando in realtà l’eccezione nella storia è stato il Baby-Boom del secondo dopoguerra, quando il boom economico, la pace e lo sviluppo della medicina hanno ridotto sensibilmente la mortalità infantile, hanno permesso agli uomini di trovare un posto fisso con facilità e a molte donne di non lavorare, dedicandosi alla famiglia, che poteva allargarsi felice. Forse più che dire che oggi abbiamo troppo pochi bambini, dovremmo dire che avremo molti anziani, come non mai. Si consideri che fino agli anni Quaranta in media arrivavano ai 15 anni di età 7 nati su 10, ai 60 anni solo 5 persone su 10. Questo è il dato demografico più ragionevole che potremmo paragonare al nostro rispetto al bilancio giovani/anziani (vedi qui).
Forse la prima chiave di volta, accanto a politiche di sostegno alla genitorialità, è un’immigrazione che possa essere regolarizzata con agilità. Per il futuro a lungo lungo termine invece, probabilmente serviranno nuovi paradigmi economici e sociali in grado di garantire il Bene comune a una popolazione sempre più anziana.

Insomma, forse l’unico problema da affrontare è quando una famiglia desidererebbe più figli di quelli che ritiene di potersi permettere, anche in termini di tempo.