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Donne più propense a sviluppare demenze. Le ragioni potrebbero essere culturali. Lo studio Whitehall

La rivista scientifica The Lancet ha recentemente pubblicato dei risultati interessanti: a quanto pare le donne sono più propense a sviluppare demenze come la malattia di Alzheimer, ma le ragioni potrebbero essere culturali, correlate con il fatto che le donne fino a qualche anno fa studiavano meno degli uomini. Man mano che si sale come livello di istruzione, il gap fra incidenza delle demenze in uomini e donne diminuisce. L’istruzione come driver di una migliore salute mentale? Vediamo.

Elsa e Whitehall II
I risultati provengono nientemeno che da due studi prospettici di coorte molto solidi condotti nel Regno Unito nei passati decenni: il Longitudinal Study of Aging (ELSA) , che dal 2002 raccoglie dati da persone di età superiore ai 50 anni, con le stesse persone intervistate nuovamente ogni due anni; e lo studio Whitehall II. Chi naviga nel mondo dell’epidemiologia sui determinanti sociali della salute sa che quest’ultimo – lo studio Whitehall II – ha rappresentato una rivoluzione nello studio delle disuguaglianze di salute. Ha preso il via nel 1985 in Gran Bretagna e ha coinvolto diecimila colletti bianchi della pubblica amministrazione britannica con lo scopo di capire perché l’aspettativa di vita dipenda dal ruolo lavorativo. Non a caso si è scelto “Whitehall” perché è il nome di una via nel quartiere di Westminster dove si trovano i più rappresentativi uffici pubblici londinesi. Tutte queste persone vennero sottoposte a uno screening medico completo e a tutti fu chiesto di completare un ampio questionario su abitudini di vita, famiglia e posizione lavorativa. Ed è da trent’anni che le stesse persone vengono seguite, con nuovi esami e questionari. Per i risultati ottenuti con Whitehall II, Michael Marmot, forse il più noto epidemiologo mondiale, fu nominato Sir dalla Regina Elisabetta.

Chi parte svantaggiata
Insomma, le premesse metodologiche non sono niente male. Avere un buon campione, seguito nel corso del tempo, è un aspetto cruciale – sebbene non lo si spieghi molto spesso – della validità delle ricerche epidemiologiche. Certo, va detto che i partecipanti agli studi ELSA e Whitehall II sono per lo più bianchi, riflettendo la composizione della popolazione nata nel Regno Unito all’epoca, e non è nota la misura in cui questi risultati siano generalizzabili ad altri gruppi etnici.
In questa analisi su 15.924 uomini e donne nati tra il 1930 e il 1955 è emerso che le donne nel gruppo di istruzione superiore e nell’ultima coorte di nascita (le più giovani) avevano punteggi migliori rispetto agli uomini; mentre gli uomini nel gruppo di basso livello di istruzione e nella prima coorte di nascita (i più anziani) avevano punteggi migliori rispetto alle donne. I meccanismi alla base delle differenze osservate nella memoria tra i sessi non sono ben compresi, sebbene l’effetto neuroprotettivo dell’estradiolo sia stato identificato come una possibile spiegazione. In ogni modo, il fattore culturale è centrale, secondo gli autori: un accesso ridotto all’istruzione superiore a causa delle aspettative sul ruolo genere potrebbe aver contribuito a tassi più elevati di malattia di Alzheimer e di demenze correlate nelle donne. Il continuo aumento secolare dell’accesso all’istruzione tra le donne e il conseguente impatto sulla funzione cognitiva potrebbe cambiare gli esiti cognitivi della tarda età in futuro.
Qualche evidenza già c’è. “Abbiamo visto che le donne nelle coorti di nascita più recenti superano gli uomini nei test di memoria e fluidità e hanno un declino della memoria più lento. Questo suggerisce che le differenze di sesso nella malattia di Alzheimer e il rischio di demenza correlato potrebbero essere attenuate nelle persone più giovani, proprio per un migliore accesso delle donne all’istruzione.”
Questi risultati sono interessanti inoltre perché l‘educazione è costantemente associata a prestazioni cognitive più elevate ma non al declino cognitivo e al contributo dell’educazione sulla “riserva cognitiva”, cioè la resilienza del cervello rispetto a un danno cerebrale. Chiaramente questa correlazione fra migliore livello di istruzione e impatto del declino cognitivo vale anche per gli uomini.
Non bisogna comunque perdere di vista il fatto che le demenze sono patologie multifattoriali; vi sono molteplici fattori di rischio (ormonali, comportamentali, cardiovascolari, metabolici) e disparità sociodemografiche nell’uso dei servizi sanitari che devono essere considerate.

E in Italia?
Alla luce di questi risultati viene da chiedersi come sia cambiato l’accesso delle donne e degli uomini all’istruzione in Italia. Stando ai dati BES di Istat, nel 2019 aveva almeno il diploma l’80% delle ragazze e il 73% dei ragazzi fra i 25 e i 34 anni. Nel 2004 i 25-34 enni di allora che avevano almeno il diploma erano il 68% delle ragazze e il 60% dei maschi. Un bel passo in avanti negli ultimi 15 anni.
Se prendiamo i 60 enni di ieri e di oggi notiamo che il passo in avanti è stato altrettanto incisivo. I 60-64 enni del 2004 (che oggi hanno 75-80 anni) con almeno il diploma erano il 19% delle donne e il 29% degli uomini. I 60-64 enni di oggi che hanno almeno il diploma sono il 47% delle donne e il 50% degli uomini.