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economia

Ansia e depressione: come si misura la salute mentale? Una prima analisi della letteratura scientifica

A quanto pare dobbiamo sfatare un luogo comune: l’impatto del lockdown (il primo) in termini di ansia e depressione è stato minore di quanto pensiamo e leggiamo. In questi mesi ci siamo chiesti più volte a Infodata quanto fosse reale la percezione di disagio che viene raccontata. Che nasconde un’altra questione: come si misura bene la salute mentale?

Lo abbiamo chiesto in una lunga chiacchierata, ad Angelo Picardi, psichiatra e psicoterapeuta, che lavora nel Centro di riferimento per le Scienze Comportamentali e la Salute Mentale dell’Istituto Superiore di Sanità, che in queste settimane ha concluso un lungo lavoro di analisi della letteratura scientifica emersa negli ultimi mesi, per capire che cosa si può davvero dire e che cosa rimane invece mera aneddotica. Il risultato è che la maggior parte dell’enorme, davvero enorme, mole di ricerche sull’impatto della pandemia sulla salute mentale non ha grande qualità metodologica. Per i campioni non troppo rappresentativi, per l’utilizzo di protocolli di raccolta dati non sempre validati, per la fretta con cui sono stati raccolti e analizzati i dati.

Gli studi dovrebbero essere longitudinali

La maggioranza degli studi che sono usciti sono trasversali (si dice in gergo medico) cioè intervistano persone per la prima volta, ponendo domande sul proprio stato di salute in un dato momento, in questo caso per esempio durante o dopo il primo lockdown. “In questi casi è facile che si registrino alte percentuali di rispondenti con ansia o depressione ma è difficile capire se il fenomeno si è generato o acuito in relazione alla pandemia. Servono invece studi longitudinali, dove si intervistano le stesse persone nel corso del tempo sugli stessi aspetti della vita, per intercettare i reali cambiamenti nel loro stato di salute.” Ci sono stati per esempio dei paesi  – spiega Picardi – che negli ultimi decenni hanno strutturato delle coorti di popolazione, le hanno seguite nel tempo, garantendone la rappresentatività, investendo del denaro per garantire a tutti l’accesso al computer e a internet, anche a chi era in difficoltà economiche, per non rischiare di perdere questa importante parte del campione.

Come si fa un campione?

In molti casi si nota palesemente che il campione è troppo piccolo o non rappresentativo della popolazione. “È noto che sottoporre questionari online tramite email fa sì che più facilmente rispondano le persone più giovani e con livello di istruzione più elevato, che a loro volta inoltrano l’invito tendenzialmente a persone simili a loro” spiega Picardi. La cosa migliore sarebbe l’intervista telefonica, fatta dagli specialisti, sulla base di protocolli validati, a un campione ben rappresentativo, per avere il quale ci si può affidare a realtà che si occupano proprio di fornire coorti per studi scientifici. “Purtroppo la maggior parte delle ricerche pubblicate in questi mesi non aveva un campione ben strutturato e questo incide non poco sulla possibilità di confrontabilità dei risultati.

Con che protocolli misuro ansia, depressione e stress?

Non basta nemmeno avere un buon campione, serve fare le domande giuste alle persone giuste. In generale questo tipo di studi non si basa sul chiedere alle persone se hanno ricevuto recentemente una diagnosi di disturbo mentale o se sono in trattamento per un disturbo del genere dal momento che solo una parte delle persone con un disturbo depressivo o d’ansia ha una diagnosi ed è in cura. I protocolli sono insiemi di domande atte a capire se il malessere percepito dalla persona riflette le caratteristiche descrittive della condizione di ansia o di depressione.

Ci sono tanti tipi di questionari, a seconda della condizione mentale che vogliamo indagare, ma non tutti sono ugualmente validati e soprattutto può darsi che uno strumento di misura  sia stato validato per popolazioni di bambini e adolescenti soltanto, o su popolazioni anziane, ma che venga usato per gruppi diversi, indebolendo, come è prevedibile, i risultati.

Misurare lo stress è complesso, racconta Picardi. “Ci sono due modi per farlo. Il primo e invitare le persone in laboratorio per misurare i loro parametri fisici. L’altro approccio è appunto tramite protocollo di domande validato, all’interno di questionari o interviste condotte dallo specialista direttamente alla persona.

Quanto tempo ci vuole?

Solitamente da quando si inizia a progettare uno studio serio ai risultati consolidati  e pubblicati passano anche 2-3 anni, se si rispettano tutte le tempistiche di progettazione, campionamento, controllo di qualità e analisi dei dati, e anche quelle dei comitati etici – racconta Picardi. È dunque evidente che ricerche condotte a maggio e pubblicate a luglio 2020 tendenzialmente hanno limitata attendibilità e generalizzabilità.

Insomma: possiamo dire ben poco di dettagliato. “Solo alcuni studi mi sento di considerarli solidi e veritieri” conclude Picardi “e da questi emerge che abbiamo vissuto uno stress acuto che ci ha reso più ansiosi e tristi, ma già a fine estate lo abbiamo superato in tutto o in gran parte, in termini di prevalenza di disturbi psichici. Chiaramente questo vale per la popolazione generale nell’insieme, mentre alcune persone appartenenti a particolari categorie demografiche e lavorative hanno subito un impatto molto maggiore.” Peraltro, il lockdown non è l’unico modo in cui una pandemia può essere stressante. Ci vuole tempo per poter osservare risultati ma la crisi economica per molti settori sarà un fattore cruciale.