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Track the recovery: le conseguenze del Covid-19 sull’economia Usa

Questo è un articolo che parla di evidenza empirica e che, tuttavia, finisce col proporre una riflessione anche sulla metodologia di ricerca e sulla cultura scientifica più in generale. In questi mesi di interazione digitale forzata, fuori e dentro da meeting su Zoom, Teams o qualsivoglia piattaforma, qualche giorno fa è stato un vero piacere, quasi liberatorio, seguire il webinar (altra parola da allergia) del professor Raj Chetty, docente di Public Economics all’Università di Harvard.

È stato uno di quei momenti in cui, come si dice, ogni cosa era al suo posto: il mezzo, la competenza dello speaker, la qualità dell’informazione veicolata.

Potete, se volete, godere di un’ora e venti minuti ben spesi collegandovi a questo link, per i Covid – 19 webinar series organizzati dal Bendheim Center for Finance dell’Università di Princeton.

L’intervento di Chetty presentava in sintesi i risultati di un lavoro recentissimo del team da lui diretto, l’Opportunity Insights Team, insieme ad altri ricercatori: John Friedman, Nathaniel Hendren, Michael Stepner.

Tema del giorno: gli impatti economici del Covid-19 sull’economia americana in questi primi mesi del 2020, di cui già Infodata ha parlato qui con una prospettiva globale.

Il lavoro di Chetty è encomiabile per diversi motivi, in primis perché mostra quanto una parola sulla bocca di tutti, big data, possa concretamente trasformarsi in uno strumento di supporto al policy making, in particolare quando la raccolta dei dati, la loro analisi e visualizzazione vengono realizzati con competenza e rigore scientifico.

Chetty è del resto, non a caso, diventato famoso  un paio di anni fa per il suo corso, di nuovo completamente open, sui big data per studiare l’economia. Anche da questo punto di vista, in una fase in cui la didattica deve ripensarsi e la scuola parla dell’opportunità di innovare, questo ricercatore è un esempio felice.

Quali sono le novità dello studio di Chetty e i risultati?

Innanzitutto, a livello metodologico, gli economisti spesso studiano gli effetti degli shock con i dati delle indagini sulle famiglie, ma questi dati, sebbene importanti, hanno dei limiti. Innanzitutto, hanno ritardi nel tempo e basse frequenze. In secondo luogo, non possono essere disaggregati.

Così le stime sui consumi, sul PIL, sull’indice di fiducia, sono tutte misure fondamentali ma che soffrono un po’ della polvere del tempo e che, inevitabilmente, sono soggette a numerosi errori.

Chetty e il suo team, dunque, cercano di misurare gli impatti del Covid real-time.

I dati del settore privato, raccolti meticolosamente e messi a disposizione da diverse aziende, rispondono a molte delle limitazioni sopra citate, aprendo tuttavia nuove questioni.

Quanto, infatti, i dati di spesa delle carte di credito, per fare un esempio, possono essere considerati rappresentativi dell’intera popolazione?

Nella ricerca citata, il team di Opportunity Insights cerca di risolvere dubbi come questo attraverso un dettagliato benchmarking di questi dati a fonti pubbliche (vedi figura sotto).

Nel periodo tra il gennaio 2019 e maggio 2020, confrontando la serie messa a disposizione da Affinity Solution con la Retail Trade Survey, la correlazione è evidente e gli scostamenti poco significativi.

La qualità di questo lavoro empirico sta anche nella possibilità non soltanto di esplorare, ma di poter fare il download di questa cornucopia di informazioni in totale gratuità: di nuovo, in tempi di open data, questo messaggio è di grande collaborazione e fornisce un ottimo esempio in un mondo, quello accademico, spesso chiuso da barriere molto resistenti, promuovendo una visione in cui l’avanzamento della conoscenza e lo studio dei problemi all’interno delle scienze sociali diventano davvero un fenomeno di intelligenza collettiva.

Il risultato di questo sforzo è un esercizio di data visualization veramente notevole: il sito Tractherecovery.org consente a ciascuno di navigare all’interno delle differenti sezioni: consumi, imprese e attività commerciali, occupazione, istruzione e andamento dell’epidemia.

Il livello di disaggregazione è granulare: poiché i dati sono consultabili a livello di ZIP code, è possibile verificare, per esempio, quali quartieri di New York hanno visto più attività commerciali chiudere e perdere fatturato (vedi figura).

Figura 1: Riduzione dei tassi di occupazione per codice postale nello Stato di New York

 

Una semplice timeline consente poi di seguire gli indicatori selezionati accanto alle principali misure adottate dal governo: dal lockdown alle misure di supporto economico.

 

 

 

Quali sono le principali evidenze?

Nei primi mesi della pandemia, la spesa è diminuita molto di più per i ricchi che per i poveri (top 25% vs. bottom 25%) e la maggior parte della riduzione è derivata da un calo della spesa per i servizi alla persona. Ciò è vero sia in termini percentuali sia in termini assoluti e indica che non c’è stata necessariamente una riduzione del potere d’acquisto quanto, piuttosto, una riduzione correlata alla paura del virus.

I ricavi delle imprese sono calati in modo molto più significativo nelle aree ad alto reddito. L’interpretazione degli autori è che questo è stato principalmente uno shock all’offerta, non una mancanza di potere d’acquisto (e questo segna una grande differenza con la recessione del 2008).

I ristoranti, ad esempio, se rimangono chiusi, non possono più fornire pasti, a prescindere dalla disponibilità di denaro dei clienti.

Una delle ragioni fondamentali per cui la gente spende di meno, afferma Chetty, non è a causa delle misure di lockdown. È piuttosto perché le persone ad alto reddito tendono a lavorare da remoto e si mostrano caute.

La qualità e frequenza dei dati disponibili consente di passare in rassegna le differenti misure di policy per valutarne l’efficacia.

Lo stimolo del CARES Act, un pacchetto di 2,3 trilioni di dollari imperniato sull’estensione dei sussidi di disoccupazione, ha sì avuto un impatto in termini di aumento dei consumi, ma non tale da colmare il buco creato dallo shock Covid.

I sussidi e i versamenti in denaro producono un impatto positivo soprattutto sulla la spesa degli americani a basso reddito (che notoriamente hanno una propensione marginale al consumo più elevata), ma la maggior parte dell’aumento dei consumi è destinata a beni durevoli e non a servizi alla persona. Affinché lo stimolo sia in grado di produrre un impatto sull’occupazione nel breve periodo, le persone dovrebbero cambiare lavoro o spostarsi, il che accade di rado, dati alla mano.

Il Paycheck Protection Program (PPP), una misura che concede prestiti non necessariamente da rimborsare ad attività commerciali che non licenzino i loro dipendenti, ha avuto un impatto limitato sull’occupazione.

Chetty e co-autori suggeriscono che le aziende che hanno usufruito dei prestiti sono probabilmente quelle che, già in prima istanza, non intendevano licenziare i propri collaboratori.

 

Gli effetti di questo shock sull’occupazione e sulla disuguaglianza possono essere di lunga durata e richiedere interventi politici ancora più sostanziali in futuro.

Il 70% dei lavoratori a basso reddito che aveva un lavoro in zone ricche di Manhattan ha perso il lavoro.

Chetty cita alcuni risultati, provenienti da precedenti studi sulla Grande Recessione del 2008, che mostrano come le persone tendano a non muoversi spesso in cerca di nuovi posti di lavoro.

Inoltre, ci sono potenzialmente grandi implicazioni per la disuguaglianza.

Un esempio su tutti, su un tema particolarmente delicato: l’Opportunity Insights si è avvalso di dati provenienti da una piattaforma di didattica a distanza e il risultato preoccupante è che gli studenti a basso reddito delle scuole primarie hanno svolto in questi mesi di pandemia molti meno esercizi di matematica su app rispetto ai loro coetanei ad alto reddito. E questi, ahimè, sono risultati destinati a produrre conseguenze di lungo periodo sulla mobilità sociale.

Un lavoro come quello di Raj Chetty è davvero esemplare di quanto la scienza al servizio della policy possa offrire analisi puntuali e quantitative sulle conseguenze di una pandemia ma, soprattutto, possa poi avvalersi dei dati come strumento attivo di proposta altrettanto concreta.

Senza nulla togliere al lavoro delle task force e alla professionalità di chi ne fa parte, ma è un esempio da prendere in grande considerazione, in Italia.

Se le buone pratiche esistono, perché non copiarle?