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cronaca

Dove si concentra il peso della crisi? I numeri della disoccupazione e il nodo degli inattivi

La crisi causata dall’epidemia di COVID-19 ha creato un enorme buco nell’economia italiana, che solo nel primo trimestre ha fatto crollare il Pil di oltre il 5%. Le ultime previsioni della commissione europea ipotizzano un calo complessivo del 9,5% nel 2020: di gran lunga il peggior risultato dalla fine della seconda guerra mondiale.

Quali saranno le conseguenze per le famiglie, e quali i gruppi più a rischio? Per capirlo possiamo partire dalla situazione attuale, che secondo le ultime Eurostat vede alcuni gruppi specifici già in posizione svantaggiata rispetto ad altri. Si tratta, nello specifico, di giovani, donne, lavoratori e lavoratrici precarie, persone di origine straniera, residenti nel meridione. Queste, a tagliarle con l’accetta, sono le categorie che tendevano da prima ad avere un reddito inferiore, a lavorare meno e dunque a essere più povere.

Un primo effetto dell’epidemia cominciamo a vederlo dai numeri  del lavoro, che hanno cominciato a peggiorare a marzo per poi sprofondare in aprile – gli ultimi disponibili al momento.

Come ha ricordato Francesco Seghezzi, presidente della fondazione ADAPT ed esperto di mercato del lavoro, in “aprile 2020 il numero degli occupati diminuisce di 274mila unità, una variazione mensile mai vista negli ultimi decenni. Su base annua il calo è di 497mila occupati. Diminuiscono sia gli occupati maschi (-131 mila) che femmine (-143 mila). Su base annua è più marcato il calo della componente femminile con -286 mila occupate in meno (i maschi -211 mila). In forte diminuzione, come già a marzo, i disoccupati (-484 mila) che vanno ad ingrossare le file degli inattivi che crescono in un mese di 746 mila unità e di 1,46 milioni in un anno”.

“Il tasso di occupazione scende al 57,9% (penultimo posto in Europa), quello di disoccupazione scende al 6,3% (tra i più bassi degli ultimi decenni) ma è una illusione ottica perché quello di inattività sale al 38,1%, ai livelli del 2011. Il calo degli occupati è generalizzato e colpisce 76 mila a tempo indeterminato, 129 mila a termine e 69 mila autonomi. È probabile l’effetto delle decisioni prese ancor prima del blocco dei licenziamenti per i tempo indeterminato. Su base annua gli occupati dipendenti diminuiscono di 306 mila unità ma il saldo degli occupati permanenti resta positivo di 175 mila. Il grosso calo è dato da -460 mila a termine e da 196 mila autonomi in meno”.

“La disoccupazione giovanile scende al 20,3% ma anche in questo caso è una illusione ottica perché diminuisce il tasso di occupazione di 0,6% e soprattutto aumenta quello di inattività del 2,6%. Il calo dell’occupazione è ancor più marcato nella fascia 25-34 anni dove il tasso diminuisce dell’1,3% e quello di inattività aumenta del 2,7%. Meno colpiti gli over 50 con un calo dello 0,3% e una crescita dell’inattività dell’1%. Ma è depurando dalla componente demografica che si coglie l’impatto forte sui giovani con gli occupati che calano del 4,4% rispetto a uno 0,2% degli over 50. In sintesi: la pandemia è arrivata anche nei numeri del mercato del lavoro, dopo che le sue conseguenze erano sotto gli occhi di tutti da 3 mesi. L’impatto è concentrato di più su donne, giovani e lavoratori temporanei, ma le altre categorie non vengono di certo graziate”.

Come spiega Andrea Garnero su lavoce.info, il calo del tasso di disoccupazione è un’illusione ottica. Per disoccupati si intendono infatti le persone che hanno cercato attivamente lavoro nella settimana di riferimento, attività al limite dell’impossibile in una nazione in lockdown. Chi invece né aveva un posto né l’ha cercato rientra negli “inattivi”, che infatti sono aumentati moltissimo.

Era già accaduto con la recessione del 2008: il peso della crisi sembra concentrarsi anche questa volta sulle categorie più deboli. A molti lavoratori a termine non viene rinnovato il contratto, gli autonomi non godono di tutele come la cassa integrazione di cui invece possono beneficiare i dipendenti, e così via.

Secondo Garnero,“anche il totale degli occupati non racconta tutta la storia. Chi è in cassa integrazione è considerato occupato (come chi è in malattia o in ferie). Tuttavia i dati Istat mostrano che ad aprile un terzo degli occupati era in realtà assente dal posto di lavoro, rispetto al 5 per cento di un anno fa, portando a un calo del totale delle ore lavorate (che non erano ancora tornate pienamente al livello pre-2018) del 28 per cento circa rispetto ad aprile 2019”. Per fare un paragone, gli assenti nella settimana, in aprile, hanno superato quasi lo stesso livello di agosto 2019 – quando mezza Italia era in ferie. Un altro dato elemento fondamentale da tenere sotto traccia dunque riguarderà proprio il recupero delle ore lavorate: difficilmente sarà completo, ma a che livello arriverà, e quanto in fretta?

In un’audizione tenuta da Roberto Monducci, direttore del dipartimento per la produzione statistica all’Istat, emerge la natura duale del problema del lavoro. Certamente più intense le difficoltà di chi è stato interessato direttamente dai provvedimenti di sospensione, intanto, dove parliamo di 7,3 milioni di persone che operavano in uno dei settori “congelati”.

“La scelta operata dai diversi provvedimento normativi”, si legge nell’audizione, “ha fatto sì che tutti gli occupati dei settori agricoltura (909mila persone), trasporti e magazzinaggio (1 milione 143mila), informazione e comunicazione (618mila), attività finanziarie e assicurative (636mila), pubblica amministrazione (1 milione 243mila), istruzione (1 milione 589mila), sanità (1 milione 922mila) e servizi famiglie (733mila) siano rimasti attivi, sebbene alcuni di essi abbiano proseguito prevalentemente o quasi esclusivamente attraverso il lavoro a distanza”.

Negli altri settori, d’altra parte, la quota di persone occupate nei settori sospesi non supera il 20% nelle attività immobiliari, professionali, scientifiche e tecniche, noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese (circa 536 mila occupati), nel commercio la quota sale al 43% (oltre 1,4 milioni), mentre nell’industria in senso stretto e nelle costruzioni risultano lavorare in settori sospesi più della metà degli occupati (rispettivamente 56,4 e 60,7%; in totale poco meno di 3,5 milioni di lavoratori)”.

I settore del turismo. Cruciale la situazione nel settore alberghi e ristorazione, dove poco meno di 1,2 milioni di lavoratori sono stati sospesi, e in cui è alta anche l’incidenza dei contatti a termine. Una combinazione di due fattori critici quanto a rischio di restare senza posto. Anche l’età di chi lavorava in settori sospesi va tenuta a mente: “risultava occupata in imprese la cui attività è stata sospesa il 47,8%” degli under 30, a intendere che i giovani sono risultati più interessati degli anziani.

Il rischio per le donne. L’audizione sottolinea poi altri fattori di vulnerabilità, concentrandosi sul caso delle donne. Risultano “presenti in molti settori classificati a medio e alto rischio rispetto alla possibile esposizione al virus”, e per esempio “è più alta [rispetto agli uomini] la quota di lavoratrici che opera in settori a rischio alto o medio-alto (28% contro 12%)”.

Allo stesso tempo bisognerà vedere cosa succederà una volta che misure temporanee oggi in vigore come il blocco dei licenziamenti arriveranno a conclusione, dal 18 agosto. A quel punto le aziende saranno state in grado di riprendere la produzione, o ridurranno gli organici per ora congelati?

D’altra parte anche il comportamento dei consumatori sarà fondamentale. Quanti hanno cambiato le loro abitudini, e continueranno a farlo anche nell’immediato futuro? Ora magari le regole consentono alle persone di tornare a fare molto, ma ovviamente nessuno le obbliga. Se il loro atteggiamento continuerà a essere prudente non è fuori dal mondo ipotizzare meno consumi e più risparmi, almeno nell’immediato futuro. In questo come in tanti altri aspetti abbiamo al momento molte domande, poche risposte.