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cronaca

Covid-19, i limiti e la comprensione dei dati che ogni giorno comunica la Protezione civile

I dati del tardo pomeriggio sull’epidemia di COVID-19 sono diventati una specie di rituale laico. Per interpretarli correttamente dobbiamo però tenere a mente che già in tempi normali raccogliere informazioni da fonti diverse a un ritmo così sostenuto, metterle insieme in forma sistematica e senza errori non è per nulla facile. Le difficoltà si moltiplicano poi in una situazione di grave crisi come quella in cui ci troviamo.

Prendiamo il dato più diffuso, su cui un po’ tutti si prestano a divinare il futuro: il numero di casi. Già una definizione di questo tipo, come spesso viene data, è molto fuorviante. Quante sono le persone davvero contagiate dal virus, che sia in Italia o nel mondo, non lo sa esattamente oggi né lo saprà mai nessuno. Nel tempo avremo al massimo delle stime ragionevoli, e chiedere di più va al di là di quanto la scienza è in grado di fornire.

I numeri riportati ogni giorno sono in effetti quelli di chi le autorità sospettano essere stato colpito, poi sottoposto a un test, e di cui sono catalogati i risultati spesso dopo diversi giorni di attesa a causa del sovraccarico dei laboratori che li conducono – pochissimi rispetto a quanti ne servirebbero davvero. In realtà non abbiamo idea neppure di quante sono le persone testate in tutto, perché ognuna di loro può essere sottoposta diverse volte al tampone e quindi contata in multipli.

Se non sappiamo neppure quanti sono i casi, come facciamo a capire quanto è esteso il problema? O se le cose stanno migliorando o meno? Questo problema è cruciale non solo per il pubblico, ma anche per alcuni studiosi che hanno provato a rimediare fornendo alcune prime stime di quanti potrebbero essere davvero le persone colpite da COVID-19 in diverse nazioni del mondo, Italia inclusa.

Il Centre for the Mathematical Modelling of Infectious Disease, gruppo multidisciplinare alla London School of Hygiene & Tropical Medicine, ha così reso note alcune analisi preliminari che cercano di capire quanti fra i casi di persone colpite che presentano sintomi sono stati effettivamente trovati attraverso i test – e quanti invece restano dunque ignoti.

I risultati più recenti, aggiornati al 23 marzo 2020, mostrano che l’Italia sarebbe di gran lunga la nazione al mondo con il maggior numero di persone contagiate ma non ancora individuate. Appena il 4,7% dei casi sarebbe stato davvero scoperto attraverso dei test, al momento, che partendo dai poco meno di 60mila contagiati censiti dall’ultima rilevazione porterebbe il numero totale di casi a 1,26 milioni nell’ipotesi centrale.

Per fare un confronto, anche in Spagna dovrebbe esserci una situazione simile – quanto a casi rilevati sui totali –, il che significa che nel paese iberico ci sarebbero oltre mezzo milione di contagiati contro i 29mila rilevati. Nazioni come la Germania starebbero invece rilevando trovando buona parte delle persone che sono state colpite (circa il 70% del totale, secondo queste stime), e ancora di più i coreani che ne hanno individuati circa l’83%.

Come arriviamo a queste cifre? Gli autori partono da due ipotesi. Se il numero di casi scovati dipende dai test condotti, e quindi c’è un enorme potenziale di persone che possono sfuggire, lo stesso non vale per i decessi che invece è più difficile – anche se comunque non impossibile – sfuggano. Se sappiamo da qualche altra analisi quante persone tendono a morire, rispetto a quelle colpite, possiamo usare questo numero per ricalcolarci i casi totali “reali” in basi al numero di morti registrati.

Prendiamo proprio l’Italia: una delle domande più pressanti è perché nel nostro Paese stanno morendo così tante persone. La Germania per esempio finora ha scovato circa metà dei casi rispetto all’Italia, ma con meno di 100 decessi contro gli oltre 5mila italiani. In nessuna fra le altre grandi nazioni stanno morendo così tante persone rispetto ai casi scoperti finora come in Italia – benché la Spagna si stia avvicinando –, ed è fondamentale capire come mai.

Le possibili spiegazioni sono diverse, e non per forza in conflitto fra loro. Quella degli autori dello studio è questa: è possibile che ci siano moltissimi casi “sommersi”, che appunto non vediamo perché stiamo conducendo pochi test rispetto a un’epidemia che potrebbe essere ben più estesa di quanto abbiamo ipotizzato finora. Quindi non li vediamo dai numeri dei test, ma sappiamo che esistono perché i morti sono troppi rispetto a quanto è noto della malattia.

In Italia finora sono morte circa il 9% delle persone testate positive al COVID-19, che è ben di più di quanto ci aspettiamo. “Le migliori stime”, scrivono invece gli autori, “vanno dall’1 all’1,5%”. Essi ipotizzano dunque che il valore reale sia dell’1,38%, derivato da un ampio studio condotto in Cina, e che la differenza sia dovuta appunto al fatto che tantissime persone colpite non sono state individuate. Rapportando i due valori fra loro abbiamo una prima stima di quanti potrebbero essere i casi reali.

I ricercatori tengono in conto in questo calcolo anche il fatto che fra la conferma di un caso e un decesso passa necessariamente diverso tempo. In media 13 giorni, secondo le stime del gruppo, e anche questo va tenuto a mente: i numeri che guardiamo oggi sono in realtà una foto scattata circa due settimane fa.

Risultati come questi hanno d’altra parte un bel po’ di asterischi attaccati accanto, ed è bene esaminarli uno per uno per capire esattamente cosa possono dirci e quali limiti hanno. Come si premurano di sottolineare gli autori stessi, un elemento fondamentale è che i popoli possono essere molto diversi da un punto di vista demografico. Alcuni sono ben più anziani di altri, e questo ha senz’altro un ruolo nel momento in cui sappiamo – come ormai hanno mostrato molti studi – che le conseguenze peggiori del COVID-19 si concentrano molto (anche se non solo – i giovani sono tutto fuorché immuni) fra le persone di una certa età.

In sostanza significa che, a parità di tutti gli altri fattori, le nazioni in media anziane come l’Italia tenderanno comunque ad avere più morti di quelle giovani. I ricercatori scrivono che “stanno estendendo la loro analisi, adattandola alla distribuzione di età dei vari Paesi”, ma al momento questo fattore non viene considerato, il che vuol dire che probabilmente i casi reali sono meno di quanto risulta da questa prima analisi.

Un errore nella stessa direzione, a intendere che c’è forse un’ulteriore sovrastima dei casi reali qui presunti, deriva anche dal fatto che in diverse aree italiane gli ospedali sono sottoposti a un’enorme pressione, con per esempio i reparti di terapia intensiva occupati ben oltre la loro capacità teorica. In queste condizioni purtroppo la mortalità aumenta, perché diventa impossibile assicurare a tutti gli stessi standard di cura che invece avremmo in una situazione non di emergenza. Questo problema, già in sé drammatico, rende anche più complicato dare un confine all’epidemia.

I valori degli autori fanno poi riferimento ai soli casi di persone che presentano sintomi, ma allo stesso tempo sappiamo che non tutti i contagiati li manifestano per forza. Includendo anche gli asintomatici il totale diventerebbe per forza ben più alto, anche se allo stato attuale è difficilissimo dire esattamente di quanto.

Quella in cui ci troviamo è anche una delle situazioni in cui bisogna prendere ancora più sul serio del solito gli intervalli di confidenza dei dati e tenere a mente come essi vengono prodotti. In base alle analisi statistiche condotte dagli epidemiologi possiamo magari dire che nel 95% dei casi il numero reale di contagiati italiani è fra 1.095.148 e 1.442.390 persone, ma numeri così esatti sono soltanto il risultato di calcoli statistici e insieme assurdi nel contesto di una situazione tanto incerta. Si tratta di una falsa impressione di precisione.

Naturalmente è del tutto impossibile arrivare a contare i singoli individui in questo modo, e bisogna trattare questi numeri come indicatori di massima di quello che non sappiamo, che è il meglio che possiamo fare al momento. Si tratta di valori secondo cui è praticamente impossibile che in Italia i contagiati siano davvero i 60mila trovati finora, ma che mettono anche – nei limiti del possibile – un tetto all’estensione dell’epidemia: restano quindi ancora moltissime le persone ancora potenzialmente esposte, e quindi la conseguenze sanitarie possibili che abbiamo visto finora sono solo una piccola parte di quelle potenziali se le cose vanno storte.

L’ultimo aspetto da sottolineare è che neppure i dati sulle morti sono completamenti certi e affidabili. Per motivi diversi e spesso legati allo stato di emergenza o alla mancanza di mezzi, non tutti i decessi per COVID-19 vengono sempre associati alla malattia, né vengono sempre effettuati test ai morti sospettati di aver contratto il virus.

Come ricorda un’inchiesta dell’Eco di Bergamo, per esempio, “i dati dei decessi ufficiali per «Covid-19» fotografano solo una piccola parte dei casi reali nella provincia di Bergamo”. Solo nel capoluogo di provincia “da una media di 45 decessi a settimana negli ultimi dieci anni si è registrata un’impennata fino a 313 a settimana, quasi sette volte tanto nei sette giorni dal 15 al 21 marzo. Dall’1 al 21 marzo invece il rapporto è di quattro volte rispetto alla media degli ultimi dieci anni. Fino all’ultima settimana di febbraio, quando il contagio era ancora limitato, i dati sono rimasti in linea con la media: 64 morti a settimana contro i 48,9 della media degli ultimi dieci anni. Con l’inizio di marzo però ecco l’impennata: 95 morti nella prima settimana contro i 49,1 di media, poi un balzo verso l’alto con 296 morti nella seconda settimana di marzo contro i 49.4 della media degli ultimi dieci anni e infine il dato più alto finora, nella terza settimana, con 313 decessi contro una media di 45”.

Che il numero di casi trovati sia senz’altro solo una piccola parte del totale reale lo confermano in effetti anche le autorità che i dati ufficiali li compilano, come ha detto il responsabile della Protezione Civile Angelo Borrelli in un’intervista a Repubblica. Il lavoro degli epidemiologi va preso come un primo e ancora parziale tentativo di capire meglio quanto.

Nota: tutte le analisi dell’articolo sono aggiornate al 23 marzo 2020.

Ultimi commenti
  • Elia Conti |

    è interessante la stima dei contagiati totali fatta dal CMMD Londinese, ma il tutto si basa sull’ipotesi che il COVID19 abbia un tasso di mortalità dell’1.4%, che come da voi sottolineato, rappresenta un’indicazione di massima, dato che, non viene tenuto conto della variazione del tasso di mortalità in funzione della fascia di età.
    Basandomi su un articolo pubblicato sul portale dell’Università di Padova, del quale riporto in fondo un estratto* è possibile effettuare un calcolo leggermente più accurato dei casi totali da inizio pandemia, effettuando il calcolo a partire dal numero delle vittime per fasce di età e dalla conoscenza dei case fatality ratio (CFR) dichiarati dal Korea University College of Medicine si ottiene una di stima di 410.000 contagiati totali in Italia.
    è logicamente anche questa una stima, ma effettuata considerando la variabilità del CFR in funzione della fascia di età.
    Sarebbe inoltre rassicurante poter considerare che tale numero 410.000 fosse più realistico rispetto a quello dichiarato dall’università Londinese.

    *”Ad oggi la Corea ha effettuato circa 400.000 test: il campione considerato è ampio e per questo i dati coreani possono essere considerati affidabili. Kim Woo Ju, professore di malattie infettive, Korea University College of Medicine, a Seoul, ha dichiarato in un’intervista che al 24 marzo in Corea gli asintomatici capaci di trasmettere la malattia si assestavano intorno al 20%. Per quanto riguarda il tasso di letalità, compreso tra il 2% e il 3% a livello globale, si sono osservate notevoli variazioni per fasce d’età. Negli ottantenni il tasso di letalità è dell’11,6%, tra i settantenni del 6,3%, tra i sessantenni dell’1,5%, nei cinquantenni dello 0,5%. Due soli pazienti sotto i 40 anni sono deceduti in Corea e il 90% dei decessi è stato nella fascia over 60″.

  • Luigi |

    Intanto mancano: 1) turnover delle terapie intensive, cioè deceduti e spostati in altri reparti; 2) reparto dove sono avvenuti i decessi. Infografica epicentro. Iss informa che il 97% dei casi sono decessi per sindrome respiratoria, da cui è lecito dedurre che abbiamo avuto bisogno di essere intubati e quindi della terapia intensiva. Se guardiamo all’incremento giornaliero dei ricoverati in terapia intensiva e lo mettiamo a confronto con l’incremento giornaliero dei decessi scopriamo che molto spesso che i decessi avvengono fuori dalla terapia intensiva. Per fare un’analisi approfondita dobbiamo considerare che: un numero non specificato di persone passano da terapia intensiva e ricovero normale. Quindi dovremmo fare per completezza un calcolo del genere: (differenza giornaliera di terapia intensiva- differenza giornaliera di ricoveri esclusi i nuovi ricoveri ) – (differenza giornaliera dei decessi x 97%) = morti fuori terapia intensiva con sindrome polmonere SE VALORE < zero. Con questo calcolo otteniamo il numero delle persone che non sono state citate adeguatamente. Per quanto riguarda il dove sono morti.

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