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economia

Lavoro, famiglia e cultura. Ecco i fattori che condizionano il nostro fertility gap

 

Il divario di fertilità (fertility gap) è la differenza tra il numero di bambini che le donne vorrebbero avere (intenzioni di fertilità) e il tasso (finale) di fertilità Uno studio delle demografe Eva Beaujouan e Caroline Berghammer ha confrontato la differenza fra i figli desiderati (le intenzioni di fertilità) e quelli effettivamente avuti in venti nazioni diverse, fra cui diverse europee e gli Stati Uniti, trovando che le italiane sono fra coloro che vivono una distanza maggiore fra teoria e pratica: in effetti soltanto in Grecia e Spagna il problema è risultato più grave.

Confrontando i risultati con il passato, emerge di nuovo in Italia (come in altre nazioni dell’Europa del sud) anche un netto calo nel numero di figli, che ha avuto inizio intorno alla fine degli anni ‘60 e all’inizio dei ‘70. Per capire la ragione le autrici hanno ipotizzato tre possibili spiegazioni, ovvero la situazione economica, il bilanciamento famiglia-lavoro oppure la presenza di nascite non previste.

Di certo il bilancio familiare è di primissima importanza, e per esempio ricerche precedenti hanno trovato “una correlazione negativa tra il tasso di disoccupazione e il tasso di fertilità totale”, mentre a livello individuale altri studi hanno mostrato che non avere un lavoro tende a rimandare o far mancare del tutto la presenza di figli.

Un altro elemento importante è la possibilità di conciliare lavoro e famiglia, che varia in maniera ben radicale fra nazioni diverse: lì dove sono presenti congedi parentali pagati e di durata sufficiente, insieme a strutture consolidate di assistenza all’infanzia, anche il legame delle donne con il mercato del lavoro tende a rafforzarsi.

In diversi di questi casi l’Italia risulta però parecchio indietro, a cominciare proprio dal lavoro. Secondo Istat infatti appena metà delle donne fra 25 e 34 anni aveva un impiego, nel 2018, e circa solo una ogni tre al sud. E anche fra le 20-29enni che lavorano, ci dicono i numeri  dell’agenzia europea di statistica, oltre metà ha comunque un posto di lavoro a tempo determinato il che rende più complicato programmare in qualche modo il futuro.

In Germania e Austria, d’altra parte, “la partecipazione delle madri al mercato del lavoro è in paragone alta mentre risulta rara l’iscrizione agli asili nido: le madri di solito tendono a mancare a lungo dal lavoro dopo la nascita di un figlio o una figlia, per poi tornare spesso con un impiego part time”. L’Italia come altre nazioni del sud Europa, ricorda lo studio, è caratterizzata da politiche di supporto alla famiglia deboli come la bassa iscrizioni agli asili nido o altrettanto bassa disponibilità di lavoro part time.

A influire sul numero di figli può essere poi anche la prevalenza di nascite non desiderate, dovuta al mancato uso di contraccettivi efficaci oppure alla presenzi di restrizioni alle interruzioni di gravidanza. Qui le autrici hanno trovato che secondo i dati disponibili in Italia (così come in Grecia), i contraccettivi venivano usati ma in maniera meno efficace che nelle altre nazioni dell’Europa occidentale.

Mettendo insieme questi tre elementi, la ricerca trova che nell’Europa meridionale e dunque anche in Italia ci si aspettano livelli relativamente elevati per quanto riguarda il numero di figli desiderati, in parte dovuti all’ampia dimensione delle famiglie dei propri genitori. “Ampi valori nel fertility gap vanno cercati in Italia, Spagna e Grecia, a causa delle difficili condizioni del mercato del lavoro e del basso supporto per politiche di conciliazione lavoro-famiglia”, mentre “il numero di nascite non previste potrebbe essere maggiore in Italia e Grecia [rispetto agli altri] dove è minore l’uso di metodi contraccettivi efficaci”.

Ma quali fattori influenzano la differenza fra il numero di figli che si desidera avere in teoria e quelli reali? E quali spiegano nello specifico il risultato dell’Italia?

Scrive Marco Albertini, professore di sociologia all’università di Bologna: la letteratura degli ultimi decenni – perché oramai è una cosa che i demografi ripetono da tanto, anche se la politica sembra ascoltare poco, o almeno a non agire di conseguenza – indica che quello che manca sono varie cose: prima di tutto chiaramente viene l’occupazione giovanile, di qualità (avere un reddito decente e stabile è condizione essenziale per affrontare i costi economici connessi all’avere e crescere un figlio). Il sostegno economico alle famiglie con futuri figli passa quindi principalmente attraverso l’occupazione. In secondo luogo attraverso politiche di sostegno quali assegni famigliari, servizi di cura di qualità a costi sostenibili: l’altro costo implicito dei figli – oltre a quello economico – è in termini di tempo. Anche su questo non c’è una soluzione unica che risolva tutti i problemi ma pacchetti di soluzioni per la conciliazione famiglia-lavoro. Qui schematicamente possiamo identificare tre aree. Una pubblica, tramite servizi di cura ai figli (qualità, disponibilità e flessibilità oraria, costi). Una seconda privata, ovvero politiche di flessibilità oraria sui luoghi di lavoro da parte delle imprese e in generale la cultura dei luoghi di lavoro, che può portare a forti penalizzazioni di carriera per chi usufruisce di congedo di maternità e genitoriale. La terza familiare, ossia la partecipazione dei papà alla cura dei figli, e in generale al lavoro familiare non retribuito, aiuta la conciliazione e quindi la fecondità. L’Italia è debole in molti aspetti di queste aree: occupazione giovanile, disponibilità di servizi di cura alla prima infanzia fino a tre anni – mentre poi invece facciamo decisamente meglio per i bambini più grandi – politiche di conciliazione pubbliche e sui luoghi di lavoro, aiuto economico alle famiglie con figli, partecipazione dei papà al lavoro familiare”.

In tutto questo anche il livello di istruzione delle donne ha un suo ruolo: le autrici trovano infatti che  l’effetto positivo di livelli maggiori di istruzione è ben significativo proprio in Italia, così come in Spagna, Belgio, Stati Uniti e Olanda. Questo implica che secondo la ricerca moderate variazioni del livello di istruzione delle donne dovrebbero avere un impatto sia sul fertility gap che sulla mancanza assoluta di figli, sia in Italia che in Spagna, dove “da un lato le donne con elevato livello di istruzione riescono a partecipare al mercato del lavoro ma ricevono supporto limitato per la conciliazione di lavoro e famiglia”, mentre dall’altro “le famiglie meno istruite devono affrontare un livello elevato di insicurezza del proprio lavoro”. Entrambi elementi che tendono per ovvi motivi a rendere più complicato, rimandare o nel peggiore dei casi cancellare del tutto la possibilità di avere figli, al di là dei desideri reali di ogni singola donna.

Naturalmente un singolo studio scientifico è soltanto un indizio in un contesto più ampio e tuttavia, conclude il sociologo, “la letteratura scientifica su questi temi è vastissima e i metodi applicati sono i più vari, anche per quello che riguarda i dati utilizzati c’è ampia varietà. Il fatto che i risultati di così tanti studi diversi puntino sostanzialmente sempre nella stessa direzione ci fa pensare che si tratti di risultati oramai considerati affidabili dagli studiosi del tema”.