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Nba: chi sono quest’anno i migliori giocatori? Lo sa l’algoritmo “Raptor”

L’inizio della stagione NBA 2019/20 è stato forse uno di quelli più attesi di sempre sia per tutto quello che succederà durante il campionato, sia per come ci si è arrivati a seguito di un’estate fatta di trasferimenti che hanno segnato in modo permanente gli equilibri della National Basketball Association.

A partire dall’addio di Kevin Durant – costretto ai box per tutta la prossima stagione a causa della rottura del tendine di Achille subita durante le Finals – che ha salutato i Golden State per accasarsi ai Brooklyn Nets, passando per il colpaccio dei Los Angeles Clippers che sono riusciti a mettere a segno una doppietta storica firmando sia Kawhi Leonard (fresco campione ed MVP delle finals con i Toronto Raptors) sia Paul George, il preludio per il campionato è stato una specie di maxi domino in cui nei primi giorni di luglio si sono delineate le nuove strategie dei front office delle trenta franchigie.

Nuove, ma anche meno nuove strategie. Già perché gli appassionati ricorderanno come durante la pausa per lo scorso All Star Game, i Lakers fecero carte false per arrivare – senza riuscirci – ad Anthony Davis, mettendo sul piatto della bilancia praticamente mezza squadra ad eccezione fatta per LeBron James.

E se l’accordo non è stato raggiunto a febbraio, era comunque palese che sarebbe stata solo questione di tempo: come è poi prontamente successo ad inizio luglio, i giallo-viola, pur sacrificando quasi totalmente i loro giovani di belle speranze, hanno ultimato lo scambio che ha fatto arrivare Anthony Davis direttamente da New Orleans.

Chi sono i migliori giocatori?

Addentrandoci nei numeri che ci conducono verso la nuova stagione, ad Infodata abbiamo trovato molto interessante uno spunto pubblicato da fivethityeight.com sia per quanto riguarda il nome dell’algoritmo utilizzato, ribattezzato RAPTOR (Robust Alogorithm using Player Tracking and On-court/off-court Result), sia per l’output che ha prodotto, in particolar modo per le ultime sei stagioni complete, ossia quelle per le quali sono disponibili tutti i dati utilizzati dal modello.

Considerando diverse misure, in particolar modo il plus/minus (che indica il differenziale di punti registrato da una squadra quando un determinato giocatore è dentro/fuori dalla partita) e il win shares (che rappresenta il contributo del singolo espresso in termini di numero di vittorie direttamente riconducibili al suo effort), è stato stilato un elenco dei venti giocatori più performanti a partire dalla stagione 2013/14.

Nei grafici che seguono, l’istogramma rappresenta il WAR (wins above replacement) dei top 20 giocatori degli ultimi sei campionati segmentato per stagione regolare (base di 82 gare) e playoff (numero variabile di partite, in funzione delle sedici necessarie per vincere il titolo), mentre il secondo grafico rappresenta gli stessi atleti sulla base di come hanno contribuito in relazione al plus/minus declinato nella versione di attacco (OFF) e difesa (DEF).
Cliccando sul valore di un giocatore in un grafico verrà evidenziato il corrispondente valore nell’altro.

 

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Stando ai numeri, il “miglior” giocatore sotto questo punto di vista è Stephen Curry, uomo franchigia dei Golden State Warriors – tre volte campioni con cinque apparizioni nelle ultime ed altrettante edizioni delle Finals – e più in generale simbolo della nuova filosofia della NBA ormai orientata sempre più verso il tiro da tre punti.

Con un valore complessivo (fra regular season e playoff) pari a 120, Curry si impone sul gradino più alto di questo podio completato dal micidiale realizzatore degli Houston Rockets, James Harden (107,9) e dall’immenso LeBron James (93,2) i cui dati, per i sei anni analizzati, coprono l’ultima stagione con i Miami Heat risalente al 2013/14, il ritorno per quattro anni ai Cleveland Cavaliers (culminati con il titolo nel 2015/16), per concludersi con la scorsa stagione in forza ai Lakers.

Tra le curiosità che potrebbero colpire i più appassionati, ci sentiamo di segnalare Chris Paul in quarta posizione che, anche a fronte di un paio di stagioni non ai massimi livelli nel biennio di Houston, con un valore complessivo pari a 93 si mette alle spalle profili di primissimo piano come ad esempio Kevin Durant (77,8) e Kawhi Leonard (76,5) che, giusto per la cronaca, nei sei anni analizzati hanno vinto in totale ben quattro titoli di MVP delle Finali.

Parlando di Finals, e quindi di playoff, un altro dato che non stupirà è la presenza in quinta posizione di Draymond Green che, non tanto per il valore relativo alla regular season (61,7) in parte viziato dal costante successo dei Warriors, risulta primo assoluto per il contributo fornito nella post season come dimostra il punteggio di 25,9 staccando di ben due punti pieni il secondo classificato (LeBron James a 23,9) e a conferma di chi sostiene che il vero motore di Golden State sia proprio il tuttofare proveniente da Michigan State.

Scorrendo la lista, i nomi elencati sembrano essere quelli dei “soliti sospetti”: MVP delle finali, super star assolute o, “al limite” All Star.

C’è però un’eccezione, che potrebbe portarsi dietro un sacco di critiche per una conseguente esclusione altrui, ed è il caso di Danny Green: classico 3D player – vale a dire specialista dei tre punti con grande applicazione difensiva – diventato titolare nei suoi trascorsi agli Spurs, passando per la scorsa stagione trionfale nei Raptors a fianco di Kawhi Leonard ed ora accasatosi a Los Angeles sulla sponda Lakers.

Per capirci, Green è il classico buon comprimario che esegue quanto gli viene chiesto, ma di certo non sarebbe la vostra prima scelta (e nemmeno la seconda, la terza, o la quarta) se doveste vestire i panni di un general manager o se più semplicemente doveste vi voleste cimentare in qualche forma di fantabasket.

Il punto è che Green, evidentemente, oltre a garantire un contributo tangibile in termini di vittorie, seppur inferiore alle superstar che lo precedono, ha sempre giocato in contesti vincenti che di conseguenza alzano il valore complessivo di vittorie di squadra da ripartire poi sui singoli giocatori, lui compreso.

Quali sono state le migliori stagioni dei singoli?

Avendo definito quali sono stati i venti migliori giocatori valutando complessivamente i sei anni analizzati, si può anche girare la domanda mettendo al centro dell’attenzione le migliori stagioni disputate dai singoli atleti in questi ultimi sei campionati, sempre in funzione della metrica WAR (win above replacement).

Chiaramente, il numero di atleti è destinato a ridursi ad una stretta cerchia di superstar che, in alcuni casi, potranno comparire anche più di una volta, scalzando così dalla lista alcuni degli atleti che comparivano nella graduatoria complessiva precedentemente stilata.

Nell’infografica che segue, sempre suddivisi per stagione regolare e playoff, sono elencati i venti migliori valori per singola stagione disputata da un giocatore, colorati in funzione del campionato di riferimento.
Oltre a riportare la distribuzione per annata, completano la visualizzazione anche il numero di apparizioni per singolo atleta e il dettaglio del plus/minus sempre declinato per valore difensivo (DEF) ed offensivo (OFF).
E’ possibile utilizzare i grafici di dettaglio come filtro, per il grafico principale abilitando i relativi highlight con il click sui singoli valori.

 

Ancora una volta, in cima alla classifica troviamo Stephen Curry che nel caso specifico si piazza sia al primo che al secondo posto, precedendo in terza posizione il compagno di squadra Draymond Green.

Nel dettaglio, per quello che riguarda Curry, il miglior valore è quello fatto registrare nella stagione 2016 (26,7 war) quando, grazie anche alla straordinaria regular season dei Warriors chiusa con il nuovo record NBA di vittorie stagionali (73 su 82 gare), venne eletto unanimemente MVP della NBA, evento mai accaduto nella storia da quando si assegna il premio.

Non stupisce quindi che anche per Draymond Green, la stagione che lo posiziona sul terzo gradino del podio sia sempre la stessa; curiosamente però, al di là dei premi e delle cifre stratosferiche, l’epilogo del campionato è stato tutto l’opposto di quanto ci si potrebbe immaginare visto che i Warriors persero le Finals per mano dei Cavaliers di LeBron James, facendosi rimontare un vantaggio di 3-1, anche questa prima volta nella storia della NBA.

Proseguendo nella lista, in quarta posizione compare la stagione scorsa di James Harden che per certi versi ha avuto dell’incredibile se si pensa ai 36,1 punti di media segnati e che lo rendono il perno insostituibile nell’economie degli Houston Rockets, costruiti sartorialmente attorno alla mano mancina del numero 13 noto anche per la sua inconfondibile barba da cui nasce lo slogan “Fear the Beard”.

Più in generale, anche per questa graduatoria, i più appassionati potrebbero alzare un sopracciglio, ma in questa istanza non tanto per una discutibile inclusione, quanto invece per alcune omissioni di spicco.

Sono due le mancanze che lasciano un po’ perplessi: l’ultima stagione di Giannis Antetokounmpo e una delle stagioni da tripla doppia (almeno dieci punti, dieci assist e dieci rimbalzi) di media di Russell Westbrook.

La perplessità può essere legittima, ma va sempre ricordato quale sia il “taglio” che è stato dato all’algoritmo di fivethirtyeight.

Andando a valutare l’apporto che ogni giocatore fornisce in termine di vittorie, come detto, questo è sia veicolato dal numero di vittorie complessive da parte della franchigia, sia dall’apporto degli altri componenti della squadra.

Di conseguenza, se i numeri dal punto di vista prettamente personale messi a referto da Russell Westbrook nelle ultime tre stagioni sono impressionati, lo stesso non può essere detto per i risultati degli Oklahoma City Thunder, abbassando così il fattore assoluto delle vittorie di squadra.

Dall’altro canto, ma in questo caso il terreno è un po’ più spinoso, benchè il numero di vittorie dei Bucks del “Greek Freak” sia stato indiscutibilmente alto, si potrebbe obiettare che, nonostante Antetokounmpo sia stato per distacco il miglior giocatore della propria squadra (ed MVP della stagione), gli altri componenti del roster hanno fatto il cosiddetto “click” nel sistema di Milwaukee, performando su standard decisamente elevati a loro volta, “rubando” così qualche vittoria che, in contesti meno rodati e funzionali, sarebbe stata attribuibile alla loro prima punta.