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economia

Il climate change si combatte meglio con il portafoglio pieno

A ridurre le emissioni di CO2 sono i paesi ricchi. Quelli che stanno uscendo dalla povertà, invece, vedono crescere tanto il Pil quanto l’inquinamento. E, ragionando in termini pro capite, spesso hanno emissioni minori di quelli occidentali giustamente impegnati per ridurle.

Mentre oggi in diverse città italiane migliaia di studenti scenderanno in piazza per il Climate Strike, lo sciopero per il clima ideato dalla giovane attivista svedese Greta Thunberg, Infodata ha deciso di analizzare come sono andate le cose nel ventennio successivo al 1997. Ovvero l’anno che, con l’approvazione del protocollo di Kyoto, ha portato la questione ambientale sotto i riflettori mondiali. Il risultato è racchiuso in questa infografica:

Ogni pallino rappresenta un Paese: più è a destra, più ha visto crescere la propria ricchezza, più è in alto maggiore è l’incremento delle emissioni. I colori, come da legenda nella parte inferiore, indicano il continente di appartenenza (è possibile, con il filtro nella parte alta, isolarne uno). Mentre le dimensioni rappresentano la CO2 pro capite emessa nel corso del 2017: più il pallino è grande, più il Paese ha inquinato.

Sia per quanto riguarda la CO2 che il Pil, espresso in dollari e a parità di potere di acquisto, Infodata ha calcolato la variazione percentuale tra la situazione nel 2017 e quella nel 1997. Il Paese che ha visto l’aumento maggiore delle emissioni inquinanti è il Mozambico, dove in questi vent’anni sono salite del 432,4%.

Prima di condannare l’ex colonia portoghese come irresponsabile di fronte all’emergenza climatica, è bene considerare che nello stesso periodo il prodotto interno lordo pro capite è salito di 238 punti percentuali. Quindi, tendenzialmente, si vive meglio, o almeno una parte della popolazione ha migliorato le proprie condizioni di vita. Ma soprattutto occorre considerare che i mozambicani, lo scorso anno, hanno emesso in atmosfera 0,36 tonnellate di CO2 a testa. In Italia, dove pure c’è stata una riduzione del 25,7%, sono state 5,87.

Il record per l’incremento del Pil spetta invece al Myanmar, dove è cresciuto del 712%. In numeri assoluti, si è passati da 759$ PPP a 6.172: in Italia si è passati da 24 a 40mila. Nel frattempo, nell’ex Birmania le emissioni sono salite del 187%, arrivando a 0,47 tonnellate di CO2 pro capite. Dato irrisorio rispetto a quello di altri Paesi come la Germania (9,7), il Regno Unito (5,8) o la Francia (5,3).

Il punto azzurro che si vede vicino a quello del Myanmar rappresenta la Cina: qui le emissioni inquinanti sono cresciute del 155%, il Pil pro capite a parità di potere d’acquisto del 635%. Il risultato di questo combinato disposto di ricchezza e inquinamento ha portato i cinesi ad emettere lo scorso anno 7,1 tonnellate di CO2 a testa. Negli Stati Uniti, che sia nel 1997 che vent’anni dopo avevano un prodotto interno lordo pro capite superiore a quello cinese, sono finite in atmosfera 16,21 tonnellate di CO2 per abitante. Un dato inferiore del 22,5% a quello registrato sul finire del secolo scorso.

Tutto questo per dire che in molti Paesi del mondo l’aumento dell’inquinamento correla con un generale aumento della ricchezza e, di conseguenza, delle condizioni di vita della popolazione, perlomeno a medio termine. E se quindi fanno bene gli studenti a scendere in piazza per sollecitare la politica a farsi carico del problema, la sfida è quella di coniugare un modello di sviluppo economico che permetta anche di ridurre le emissioni inquinanti.

L’alternativa è quella di dire agli abitanti di quei Paesi che stanno uscendo dalla povertà che devono tornare indietro per salvare il clima. Un argomento poco convincente, soprattutto mentre l’Occidente, pur impegnato a ridurle, presenta le quote maggiori di emissioni di CO2 pro capite.