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tecnologia

Big Data: l’economia digitale vale già 4,7 miliardi

In principio erano gli elenchi telefonici. Quei libroni suddivisi per provincia che contenevano cognome, nome, numero di telefono, indirizzo e in alcuni casi anche posizione lavorativa di milioni di italiani. Erano una fonte di dati basilare: la prima, in questa storia, travolta dalla digitalizzazione.
Digital direct marketing; programmatic; Dmp (piattaforme che raccolgono i dati e li analizzano); marketing automation hanno sostituito le funzioni svolte dalle società di raccolta dati che impacchettavano quelli contenenti negli elenchi e li vendevano al telemarketing. Succedeva una decina di anni fa.
L’incremento del mercato 
Oggi il contesto è molto cambiato. Con l’esplosione di Internet e del mondo mobile la profilazione di un utente sfiora precisioni millimetriche. Il mercato dei dati personali in Italia ha già sforato il muro dei 4,7 miliardi di valore nel 2016. E secondo Idc toccherà quota 7,5 miliardi di euro entro il 2020 (con uno scenario “neutro”, si veda grafico in pagina), il quarto per valore in Europa dietro a Uk (20,4 miliardi), Germania (19,5) e Francia (11,9 miliardi).
Ma chi è che raccoglie i nostri dati? «Per semplificare – spiega Augusto Preta, di It Media Consulting che si è occupato del tema nel Rapporto “L’economia dei dati: tendenze di mercato e prospettive di policy” – ci si può concentrare su tre categorie di player operanti nel cosiddetto data ecosystem, riconoscendo che alcuni di essi potrebbero ricoprire più di un ruolo: produzione e raccolta; aggregazione; analisi. In Italia esistono decine di società che si occupano di raccolta e strutturazione dei dati». Il business, come detto, è in forte crescita. E di fianco alle italiane Consodata (gruppo Seat Pagine Gialle) e Cemit (di proprietà di Mondadori), oggi sono arrivati gli attori internazionali. Come i cinesi di Alibaba. «A Milano – racconta al Sole 24 Ore Fabio de Angelis, managing director di Accenture Strategy – sta trovando grande successo il free floating (le bici si prendono e si lasciano dove capita) con oltre 8mila bici. Il free floating è un successo istantaneo globale dei due principali player: Mobike e Ofobike, società nate in Cina da startup. Il bike sharing libero è, almeno in apparenza, un business in perdita anche considerate le tariffe del servizio (tra i 30-50 centesimi a corsa), ma alle aziende cinesi interessano i dati dei clienti. Non per niente, come riferisce Forbes, dietro Ofo c’è Alibaba, attraverso il suo affiliato finanziario Ant Financial. Per la crescita di un tale gigante dell’e-commerce la raccolta di dati sul commuting, le abitudini di shopping e la capacità di spesa e di credito di chi usa normalmente le biciclette per muoversi è indispensabile».

Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore del 23 01 2018