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politica

Elezioni Usa: autonomia della Fed, libero scambio e Borsa

L’appuntamento elettorale dell’8 novembre, che metterà fine a una lunga corsa senza esclusione di colpi tra i due candidati, è sempre più vicino. Sondaggi e speculazioni di vario genere si sono sprecate nei mesi per cercare di incoronare con anticipo il vincitore, ma gli scandali che hanno accompagnato entrambi i politici non hanno reso la battaglia scontata. Quello che è certo è che gli americani si troveranno a scegliere tra due programmi e impostazioni ideologiche profondamente contrapposte.
In primo luogo, dalle urne uscirà non solo un nuovo inquilino della Casa Bianca, ma anche un voto con ripercussioni sull’operato del presidente della Fed. Se infatti le scelte di politica monetaria appaio avviate sulla strada obbligata di rialzi graduali dei tassi di interesse – qualunque sia l’esito delle elezioni – a essere in sospeso è il verdetto sull’autonomia della Banca centrale. Trump, che accusa l’istituto finanziario di concentrare in sé troppo potere e di essere eccessivamente “politicizzato”, chiede lo stravolgimento dello status quo. All’opposto per la Clinton la strategia è quella di garantire una Fed capace di esprimere continuità con il passato.


Sembra invece unanime il parere riguardo alle sorti del libero scambio: un netto passo indietro chiunque vinca. Entrambi i pretendenti si sono detti pronti a correggere la politica commerciale statunitense, ma i tempi e i modi di questa modifica sono diversi. Trump, il più radicale su questo tema, si è spinto a promettere la revisione di tutti i trattati già firmati e a minacciare l’uscita dall’Organizzazione mondiale per il commercio. Clinton invece prende le distanze da quella Trans Pacific Partnership che, da segretario di Stato, aveva promosso in prima persona. Inoltre la democratica mette in programma la nomina di uno speciale “procuratore commerciale” incaricato di vigilare sui trattati già in essere a tutela degli «american jobs».
Dal 1979 l’industria americana ha perso 7 milioni di posti di lavoro e molti attribuiscono la colpa alla delocalizzazione delle fabbriche all’estero. Entrambi i candidati strizzano l’occhio al disagio della popolazione, promettendo un drastico cambio di rotta.
È infine utile cercare di chiarire perché Wall Street sembra preferire Hillary Clinton. L’evidenza empirica dell’esistenza di una correlazione è emersa chiarissima dallo studio di due economisti: quando la democratica era in difficoltà i valori di mercato si indebolivano e viceversa. A parte le questioni di fondo che riguardano multilateralismo e commerci, i timori di rischi e inaffidabilità impliciti in un’amministrazione Trump, gestita “in famiglia”, ci sono aspetti più tecnici, ad esempio l’idea respinta dalla Clinton di imporre una tassa sulle transazioni finanziarie. Mentre il repubblicano aggredisce la Borsa e le grandi multinazionali, l’avversaria è più pragmatica nei confronti del sistema bancario ma anche nei confronti delle società finanziarie. Non è un caso che Hedge funds e private equity funds abbiano contribuito alla campagna della candidata con 56 milioni di dollari, mentre appena 243 mila dollari sono stati donati per quella di Trump. Lo stesso vale per le banche, i dipendenti dei più importanti 17 istituti di credito americani hanno contribuito per Hillary con un rapporto di 10 a 1.