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cronaca

Pochi dati sulla depressione post-partum, che però sembra più diffusa di quel che crediamo

Global prevalence of postpartum depression. Da “Mapping global prevalence of depression among postpartum women”
(Nature, 2021)

I social network pullulano di narrazioni gioiose del post-partum. Volti sorridenti, frasi commosse a commento di piccole manine dentro grandi mani genitoriali. Il grande cerchio della vita è compiuto. I pochi dati disponibili mostrano tuttavia che per almeno una donna su dieci non è così.

Circa una donna italiana su dieci vive quella che viene definita depressione post-partum. Chiaramente con diversi livelli di gravità, a seconda dello stato di benessere psicofosico della neomamma prima della gravidanza. Ad agosto 2023 la Food and Drug Administration (FDA) americana ha approvato il primo farmaco orale indicato per il trattamento della depressione post-partum, il zuranolone, una nuova compressa che allevia i sintomi del disturbo in pochi giorni , una pillola che va assunta per 14 giorni e in tre giorni è in grado di alleviare i sintomi.
Un articolo apparso su The Lancet nelle scorse settimane fa il punto su quello che sappiamo di quante donne soffrono di questa condizione. Poco. Le stime della prevalenza globale vanno dal 13% al 30%, senza distinzione rilevante fra paesi a basso, a medio e ad alto reddito, ma con notevoli variazioni. Uno studio ha riportato una prevalenza nel Regno Unito del 22%, rispetto all’11% della Nuova Zelanda; del 39% in Sud Africa rispetto al 12% della Tanzania.

Un lungo lavoro apparso nel 2021 su Nature aveva stimato che nei paesi occidentali, la prevalenza della depressione post-partum varia dal 10 al 15% durante il primo anno dopo la nascita. Secondo una revisione sistematica di 47 studi provenienti da 18 paesi a reddito basso e medio-basso, la prevalenza di questa condizione era del 18,6%. U’altra revisione che aveva coinvolto 143 studi provenienti da 40 paesi rilevata una più ampia varietà di tassi di prevalenza , che vanno dallo 0,5% a circa il 60%. Perché? “Variazioni culturali, diverse pratiche di reporting, diversi punti di vista su problemi di salute mentale e stigma, classe socioeconomica, povertà, servizi sociali scadenti, alimentazione carente, stress elevato e fattori biologici possono essere tutti collegati a questo continuum più ampio” scrivono gli autori.

Depressione post-partum e suicidi

I dati provenienti dal Regno Unito e dagli Stati Uniti riportati nell’articolo del Lancet, riportano il suicidio come una delle principali cause di morte diretta nel periodo perinatale. Tuttavia, i dati relativi ai paesi a basso e medio reddito sono ancora scarsi. Un articolo pubblicato su JAMA nel 2021 stimava il rischio di suicidio 1 anno prima e dopo il parto nelle donne americane diventate mamme fra il 2006 e il 2017, analizzando le diagnosi presenti nelle loro assicurazioni sanitarie. Risultato: su 595.237 donne in età fertile incluse nello studio che sono diventate mamme, ci sono state 2.700 diagnosi di rischio di suicidio 1 anno prima o dopo il parto. La prevalenza dell’idea suicidaria è aumentata, dallo 0,1% per 100 individui nel 2006 allo 0,5% per 100 individui nel 2017. Anche la prevalenza dell’autolesionismo intenzionale è aumentata, dallo 0,1% per 100 individui nel 2006 allo 0,2% per 100 individui nel 2017.

Che cosa è la depressione post-partum

Il termine forse è improprio. Parliamo di tristezza senza apparente motivo, irritabilità, paura di non essere all’altezza nei confronti degli impegni che la attendono. Sensazioni che esordiscono generalmente tra la 6ª e la 12ª  settimana dopo la nascita del figlio, con episodi che durano tipicamente da 2 a 6 mesi. Se questa instabilità emotiva più intensa rispetto al pre parto, si “risolve” entro il primo mese dalla nascita del bambino, si parla comunemente di “baby blues”, ossia di una condizione non patologica. Il 10-15% delle puerpere invece – sono dati citati dal Ministero della Salute basati sulla letteratura – va invece incontro ad sintomi che soddisfano i criteri per la depressione maggiore, che non passa, e può durare anche fino a 6 mesi o un anno dalla nascita del bambino.
Inoltre, i termini post-natale, post-partum e perinatale sono spesso usati in modo intercambiabile, anche se in realtà bisognerebbe distinguere la depressione che inizia durante la gravidanza (che rappresenta fino alla metà dei casi) dalle manifestazioni che insorgono solamente dopo il parto. Anche l’intervallo utilizzato per definire il periodo post-natale varia, comunemente da 4 settimane a 1 anno dopo la nascita. Data questa sostanziale eterogeneità, è necessaria una migliore standardizzazione delle misure.

Secondo quanto riportato dal Manuale diagnostico MSD, i sintomi della depressione post-partum (non baby blues) sono tristezza definita come estrema, sbalzi d’umore, un pianto incontrollabile, insonnia o ipersonnia, stanchezza estrema, perdita di appetito o iperfagia, mal di testa e mialgie, sensazione di inadeguatezza rispetto alle cure da assicurare al bambino, senso di colpa per il pianto o eventuale malessere del bambino, ansia o attacchi di panico. Questi sintomi rendono difficile l’attaccamento al bambino nelle primissime settimane. Anche il partner può essere a rischio – conseguentemente – di sviluppare sintomi simili.

Trattarla farmacologicamente: sì o no?

In assenza di trattamento – spiegano i manuali – la depressione post-partum può risolversi spontaneamente o diventare una depressione cronica. Il rischio di recidiva è di circa 1 caso su 3-4. Per gli esperti autori dell’articolo su The Lancet, è giustificato un cauto entusiasmo rispetto all’approvazione negli Stati Uniti del nuovo farmaco zuranolone. In primo luogo la depressione perinatale non è un problema individuale ma una complessa interazione di fattori biologici, sociali e sistemici. In secondo luogo, la depressione post-partum si può prevenire, sottoponendo a screening formale per disturbi dell’umore tutte le donne durante le loro visite pre e post-partum.
Sebbene lo zuranolone sembra funzioni come trattamento orale ad azione rapida di 2 settimane, sembra improbabile che qualsiasi farmaco sia la risposta per ridurre sostanzialmente il carico complessivo di questa condizione. I farmaci non sono raccomandati come trattamento di prima linea per la maggior parte dei pazienti e la migliore pratica consiste nel considerare strategie che mirano ai fattori psicosociali associati allo sviluppo della depressione perinatale.”