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finanza

Il “ceto medio” lombardo non esiste. Quantomeno se si leggono bene i dati

L’espressione “ceto medio lombardo” evoca nel nostro immaginario una stabilità che in realtà è solo apparente. Nei giorni scorsi sono stati pubblicati i dati di OVeR – Osservatorio Vulnerabilità e Resilienza, nato dall’alleanza tra le ACLI Lombarde l’Istituto Ricerca Sociale e l’Associazione Ricerca Sociale, per capire quali famiglie già sotto pressione hanno anche un carico di assistenza verso persone malate, anziane o in difficoltà.
È la ricerca di questo tipo più ampia mai realizzata: un campione di circa 300 mila persone, circa un decimo delle dichiarazioni pervenute all’Agenzia delle Entrate. Si tratta di uno studio longitudinale, cioè che monitora le stesse persone nel tempo, attraverso le dichiarazioni dei redditi mediante modello 730 presentate alle ACLI nel 2019, nel 2020 e nel 2021.
Non esiste un ceto medio omogeneo per dinamiche socio-economiche. Se a prima vista sembra che questo segmento di popolazione non abbia subito particolari scossoni nel triennio della pandemia, avvicinandoci vediamo profonde voragini fra le famiglie. In particolare, il reddito medio annuo risulta pari a 26 mila euro circa in ciascuno dei 3 anni considerati, in linea con i dati del MEF relativi alla totalità dei contribuenti lombardi (25.780 euro per il 2020 e 25.330 per il 2021). Il reddito mediano regionale è di 19 mila euro annui, ma si stima che 900 mila persone in Lombardia abbiano un reddito di due volte e mezzo più basso rispetto al resto della popolazione: 22.572 euro contro 9.299 euro (dato 2021). Il primo quintile di reddito – ossia il 20% più povero della distribuzione – dichiara in ognuna delle annualità considerate circa 400 milioni di euro, mentre il quinto quintile – ossia il 20% più ricco – dichiara oltre sei volte tanto, circa 2,5 miliardi di euro, a dimostrazione della significativa concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. Il 20% dei lombardi più poveri dichiara il 6% del reddito totale mentre il 20% più ricco detiene il 40% dei redditi.

Il rapporto individua sei tipi di disuguaglianze. Anzitutto quelle di genere. Le contribuenti hanno redditi significativamente più bassi degli uomini: 17.068 euro contro i 21.589 euro degli uomini e risultano più esposte al rischio di vulnerabilità. Poi ci sono le disuguaglianze generazionali: gli anziani (qui sono stati considerati gli over 67) presentano redditi mediani per il 44% più elevati dei 30-45 enni. I redditi dei lavoratori sono inferiori a quelli dei pensionati: 17.611 euro, contro 21.004 euro. Fra il 2019 e il 2020 quest’ultimo gruppo ha addirittura registrato un aumento del reddito dell’0,8%, mentre i lavoratori una contrazione dell’1,6%.

Chi ha figli a carico ha redditi più bassi: 12 mila euro mediani contro 21 mila euro, che significa che le famiglie con figli sono molto più esposte alla vulnerabilità. I dati ISTAT evidenziano che le famiglie con minori sono la tipologia familiare con una maggiore incidenza tra i poveri assoluti.

E poi ci sono le disuguaglianze geografiche. I redditi medi dei bresciani sono molto più bassi rispetto a quelli di chi vive a Milano e nelle province di Monza-Brianza e Lecco. Scendendo dal livello regionale a quello provinciale, possiamo poi osservare alcune differenze degne di nota. Milano, Lecco e Monza-Brianza – che sono le province con il reddito mediano più elevato – sono anche quelle in cui si registrano le maggiori disuguaglianze: qui il reddito del primo quintile ammonta a circa un quinto di quello del 20% più ricco della popolazione, che registra a sua volta redditi più elevati che nel resto della Regione. La provincia meno sperequata è invece Mantova, dove il reddito dichiarato dai contribuenti del primo quintile è comunque pari ad un quarto di quello dichiarato dal
gruppo dei più abbienti.

Anche dal punto di vista educativo non si distingue un vero ceto medio. Solo un terzo dei contribuenti con figli a carico può permettersi una spesa per istruzione non universitaria privata o paritaria e l’incidenza di chi dichiara spese a copertura dell’università dei figli aumenta di ben cinque volte al crescere del reddito, così come l’importo medio di questa spesa.

Tutto questo impatta sull’accesso ai servizi sanitari. È chiaro che chi più ha più spende in visite specialistiche, dentista, farmaci. I contribuenti più ricchi del nostro panel spendono in media il 25% in più in ottico e il 20% in più per spese dentistiche rispetto al quinto più povero della popolazione. Parallelamente, le spese per persone con disabilità o non autosufficienza non sembrano essere influenzate dal crescere del reddito, in quanto si riscontra una sostanziale omogeneità tra fasce di reddito, sia in termini di ammontare della spesa sostenuta che di quota di contribuenti che le hanno dichiarate. A fare davvero la differenza sono la sostenibilità della spesa e il suo impatto complessivo, impatto che cresce drammaticamente al diminuire del reddito. Acquistare o adattare un veicolo per una persona disabile costa oltre 15mila euro annui, il 90% sul reddito di molti contribuenti.

Emerge inoltre che la metà degli anziani assistiti usufruisce di servizi a pagamento, come badanti, ma anche prestazioni sanitarie e sociosanitarie che hanno un costo, quali trasporti, attività riabilitative. Nella maggioranza dei casi (il 65%) il carico di cura è ancora condiviso con altri familiari, ma il dato dato nettamente inferiore rispetto a quanto rilevato in precedenti ricerche lombarde svolte sul tema, dove tale condivisione toccava una media dell’88%. Si tratta, forse, di un primo segnale di quanto le famiglie si stiano assottigliando, o verticalizzando, con una rete di aiuti che si restringe via via, dovuto agli imponenti cambiamenti demografici nella struttura familiare che stiamo attraversando, e di una dinamica che acuisce gli elementi di vulnerabilità dei caregiver.