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cronaca

La psicologia delle gif e dei meme. I giovanissimi e la comunicazione

Pochi giorni fa un’amica raccontava un episodio in cui un ragazzino delle scuole medie in classe con la figlia aveva inviato al gruppo classe una chat piena di pornografia e violenza a danno di bambini, di persone omosessuali, immagini pedopornografiche incluse. Alla domanda sulla reazione degli altri ragazzi di fronte a immagini francamente agghiaccianti, la risposta è stata che “dicono poco. Scrollano e giù di nuova gif”.

Etichettare facce per etichettare comportamenti

Quella che viviamo negli ultimissimi anni è l’epoca delle gif e dei meme. Le immagini divertenti profondamente espressive di una qualche emozione, prese da quadri o da fermo immagini di video famosi, o da foto divertenti fatte ad animali espressivi, a cui si accompagna un fumetto altrettanto divertente che cristallizza l’emozione espressa dall’immagine, che il più delle volte è un volto. L’obiettivo è essere sarcastici (che è diverso da ironici) e al tempo stesso implicitamente strafottenti. Se sono collage animati di pochi secondi si chiamano gif, appunto, acronimo che sta per Graphic Interchange Format. Nel caso si usino meme e gif sui social media, aggiungiamoci anche l’esigenza di diventare virali. I meme sono sentimenti precisi evocati da una precisa circostanza. Vogliono catturare l’essenza di un’esperienza o di un pensiero, facilitando un altrettanto preciso comportamento sociale.
La logica dei meme non è rivoluzionaria, ma catalizza accentuandoli aspetti della comunicazione che si riflettono sui comportamenti. Tutta la cultura si è sempre formata dando grande importanza alle etichette, ai comportamenti condiviso e al linguaggio. È la dimensione del fenomeno a essere rilevante oggi.

Si comincia a studiarne la psicologia

C’è chi sta iniziando (finalmente) a studiare l’impatto sociale di questo modo di comunicare tramite meme, in particolari giovani psicologi sociali (un bel po’ di letteratura si trova qui). Sudipti Kumar ha sintetizzato alcuni aspetti del fenomeno che sta studiando come ricercatrice. Lo stesso ha fatto Aditya Shukla in un articolo pubblicato nel 2022 su Cognition Today.

Si rilevano aspetti positivi e negativi dell’utilizzo dei meme: da una parte questa moda espressiva aiuta la condivisione di emozioni, tanto che si sta cercando di capire come il loro utilizzo possa impattare sulla salute mentale. Un caso unico è stato fornito dalla pandemia. Alcuni studi (come ad esempio questo) hanno rilevato che comunicare tramite meme divertenti aiutava la gestione dell’ansia durante le fasi acute di malattia propria o dei propri cari. Altre ricerche hanno dimostrato che le persone con sintomi depressivi avevano maggiori probabilità rispetto alle persone che non siffrivano di questi sintomi di trovare i meme depressivi divertenti, riconoscibili, condivisibili e capaci di migliorare il loro umore.
L’uso dei meme come reazione, presenta un grosso impatto sui nostri comportamenti collettivi, perché facilitano i comportamenti specifici che possono meglio garantire la sopravvivenza sociale, classificando i pensieri. Si usa sempre un meme che si sa che l’altro si aspetta di ricevere o che secondo noi avrebbe postato come reazione.

Da 6 a 27 emozioni. E poi?

Già Darwin aveva descritto sei espressioni facciali emotive: rabbia, paura, sorpresa, disgusto, felicità e tristezza. Questi distinti stati biologici sono legati a comportamenti animali specifici che li hanno aiutati a sopravvivere. Negli anni Ottanta lo psicologo Robert Plutchik ha poi elaborato la “ruota delle emozioni” che ne descriveva otto: rabbia, paura, tristezza, disgusto, sorpresa, anticipazione, fiducia e gioia, individuando per ognuna delle variazioni di intensità. Solo per fare qualche esempio.
Queste schematizzazioni però appiattiscono una complessità. I ricercatori oggi considerano le emozioni e le loro espressioni dipendenti dai modelli di pensiero e dai contesti culturali. Ciò che sembra paura potrebbe sembrare sorpresa per un’altra persona. Inoltre, le persone confondono la rabbia con il disgusto e la paura con la sorpresa. Quindi le emozioni hanno bisogno di una nuova classificazione. Un esempio ormai classico – appunto – è la scena di The Big Bang Theory in cui Amy Farrah Fowler osserva le reazioni di Sheldon e di una scimmia al test delle emozioni.

Diverse ricerche – continua Shukla – hanno osservato che vi sono sfumature nelle emozioni evocate dai contenuti video che le teorie precedenti non avevano considerato. Mostrando dei video emotivi alle persone e analizzando le parole nelle loro risposte auto-segnalate, alcuni ricercatori hanno avrebbero individuato ben 27 “emozioni” distinte anche se i confini fra l’una e l’altra di queste emozioni erano deboli.

Pensieri esternalizzati

Shukla definisce i meme come “pensieri esternalizzati”. Se riesci a pensare a un meme per una situazione, significa che c’è un modello di pensiero già pronto che hai acquisito attraverso un qualche “meme”. Invece di usare il nostro cervello per elaborare il pensiero, utilizziamo un modello esistente della cultura di Internet sotto forma di meme per elaborare il pensiero. Adattare i tuoi pensieri ai meme o trovare la corrispondenza migliore è un processo metacognitivo: pensieri sui pensieri. Se il meme trasmette più significato delle parole a causa del suo schema intrinseco, stai essenzialmente scaricando il tuo processo di pensiero e facendo in modo che l’altra persona capisca i tuoi pensieri dal meme.

 

Questo almeno, in una visione ottimistica della faccenda. Ci si chiede, da adulti, quanto i ragazzini abbiano bisogno di semplificare le emozioni per poterle classificare, o quanto invece abbiano necessità di apprendere più sfaccettature possibili per descrivere e comprendere ciò che si para loro davanti improvvisamente in una chat sconosciuta.