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Dopo due anni di pandemia le donne continuano a non andare agli screening. Tutti i numeri

A oltre due anni dall’inizio della pandemia, e a “bocce ferme” – potremmo dire – quanto a decongestionamento degli ospedali, possiamo iniziare a guardare dietro le nostra spalle e a valutare che cosa abbiamo lasciato indietro che non avrebbe dovuto esserlo. La prevenzione oncologica è uno di questi aspetti cruciali. Sotto lo stendardo proclamato dal Governo di “non rinunciare agli interventi chirurgici oncologici o comunque non procrastinabili”, cosa che di fatto siamo riusciti a mantenere, la prevenzione oncologica ha dovuto invece cedere il passo. È sufficiente parlare con chi negli ospedali e nelle Direzioni Sanitarie ci lavora, per farsi l’idea che forse il caos che ci è piombato addosso non era proprio inevitabile, ma ha avuto una forte connotazione strutturale: fossimo stati meglio preparati a far fronte a un’emergenza che assiderava tutte le risorse umane, con un congruo numero di medici, infermieri e operatori sanitari, forse avremo potuto riorganizzare più velocemente le risorse per garantire la continuità degli screening e qualcosa in più avremmo potuto salvarla.

I dati relativi al biennio pandemico 2020-21, confermano che la pandemia ha rallentato ancora di più le campagne di screening, che già in molte regioni italiane, in particolare al sud, erano scarsamente partecipate.
Dai dati PASSI 2020-2021 di ISS risulta che in Italia solo il 77% delle donne fra i 25 e i 64 anni di età si è sottoposta allo screening cervicale fra il 2020 e il 2021 (Pap-test per le under 30 e HPV test per le donne più adulte) all’interno di programmi organizzati gratuiti o per iniziativa personale. Era l’80% nel 2016-19. L’HPV test suggerito per le donne adulte consente di rilevare la presenza del virus dell’HPV, responsabile dei tumori alla cervice, prima ancora che questo abbia provocato lesioni precancerose.
Un rapporto della FAVO (Federazione associazioni di volontariato in oncologia) sui primi 17 mesi di pandemia stimava 2,8 milioni di screening oncologici saltati. Nel 2020 la copertura dello screening cervicale (come accade per gli altri screening oncologici) subisce una significativa riduzione. Nel 2021 c’è un segnale di ripresa tuttavia la copertura dello screening è ancora lontano dai valori pre-pandemia. L’Italia è divisa in due, con coperture mediamente pari all’85% nelle Regioni del Nord e Centro Italia (91% nella P.A. di Bolzano) e 69% nelle Regioni del Sud (con coperture minime per alcune Regioni come il Molise -63% o la Campania e la Calabria-65%).

Non si può dire siano esami piacevoli; nel caso della mammografia possono essere anche dolorosi, ma possono salvare letteralmente la vita se eseguiti negli intervalli stabiliti. Un tumore al seno o alla cervice uterina o al colon retto, se individuato precocemente – e gli intervalli triennali o quinquennali sono questi proprio perché sono solitamente sufficienti per una diagnosi e un intervento precoci – viene asportato prima che si evolva in stadi successivi. Nel caso della cervice e del colon retto, vengono individuate anche lesioni pre-cancerose, cioè che non sono ancora neoplasie, ma che hanno grande probabilità di diventarlo. Si tratta di tre dei tumori più frequenti in assoluto.

Con le mammografie è andata anche peggio, con quasi tutte le regioni che hanno registrato tassi di partecipazione più bassi nel biennio pandemico rispetto ai periodi precedenti, e con un divario Nord Sud che era enorme nel 2019 e rimane enorme oggi. Nella maggior parte delle regioni del Meridione la metà delle donne iscritte al SSN non esegue la mammografia, nemmeno spontaneamente. Il carcinoma della mammella è la neoplasia maligna più frequente nelle donne, un cancro su quattro fra la popolazione femminile, ed è responsabile del 14,3% delle morti per tumore nelle donne. Per un’italiana, il rischio di ammalarsi nel corso della vita è oggi del 13%: circa una donna su 45 si ammala entro i 50 anni, una su 19 tra i 50 e i 69 anni, e una donna su 23 tra i 70 e gli 84 anni. Eppure in media una donna su quattro non si è recata allo screening nel 2020-21, né – in mancanza di invito per i ritardi dovuti alle riorganizzazioni pandemiche – vi si è sottoposta spontaneamente chiedendo un appuntamento.

Come raccontavamo a febbraio 2022, parlando di un rapporto dell’Osservatorio Nazionale Screening, solo per l’impatto della pandemia (quindi lasciando da parte chi già da prima era reticente allo screening) si stimavano da marzo 2020 a maggio 2021 3.504 lesioni perse alla cervice uterina che avrebbero potuto essere individuate con la partecipazione allo screening, 3.558 diagnosi di tumore al seno che avrebbero potuto essere eseguite,1.376 carcinomi colorettali diagnosticati in meno e 7.763 adenomi avanzati non individuati quando avrebbero potuto esserlo.

A non sottoporsi allo screening sono le donne con un livello di istruzione più basso e che appartengono a nuclei familiari più svantaggiati. Va detto però che questo dato così aggregato e generico – “istruzione” e “difficoltà” economiche dove si può rispondere solo con termini altrettanto generici come “molte” o “poche” – dice, appunto, poco sulle reali caratteristiche delle donne che non credono nell’importanza dello screening, e quindi non ci aiuta a capire come intercettare meglio queste fasce di popolazione. Sarebbe interessante capire bene quante di queste donne sono veramente contrarie allo screening o quanto incidano altri fattori, come gli impegni familiari, lavorativi o – perché no – il punto di vista del partner.