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economia

Quanto costa entrare e vivere nelle case popolari?

Una famiglia per entrare in graduatoria per una casa popolare oggi deve avere un ISEE-ERP complessivo molto basso, al massimo 20 mila euro. In media spende 650 euro annui per le spese accessorie – 900 euro se nell’ edificio è presente l’ascensore – 1800 euro di utenze come riscaldamento e acqua, 400 euro annui di elettricità, per un totale che ondeggia fra i 2.800 euro e i 3.100 euro annui. A questa cifra bisogna aggiungere l’affitto, che varia sensibilmente a seconda del titolo di godimento e del tipo di proprietà. Per gli alloggi ERP (Alloggi di Edilizia Residenziale Pubblica, le vecchie Case Popolari) ciascuna regione ha disciplinato le fasce di canone in relazione ai redditi in genere calcolati con l’ISEE del nucleo familiare. Bene, se l’incidenza tra canone e spese rispetto al reddito supera il 30%, esisteranno delle difficoltà nel lungo periodo. Si tratta di una simulazione contenuta in un interessante rapporto di Caritas dal titolo Casa e abitare nel PNRR , uscito nella primavera 2022, il quale aiuta a inquadrare il problema: “il re dell’alloggio sociale è nudo”. In questo senso gli autori propongono di suddividere l’utenza in fasce a seconda delle fasce di reddito per individuare i più a rischio (vedi grafico). Chiaramente chi ha un ISEE così basso nel 2022 può usufruire di diverse agevolazioni, come il bonus bebè, il bonus luce e gas, il bonus vacanze; ma le spese accessorie, e in particolare negli ultimi mesi quelle energetiche, sono assai rilevanti nel bilancio di una famiglia a basso reddito. Una riduzione di circa 1.500-2.000 €/anno per queste spese darebbe respiro a molte di queste famiglie.

Che manchino case popolari per tutti coloro che ne avrebbero bisogno è evidente. Il Country Report 2019 per l’Italia della Commissione Europea evidenziava la carenza di alloggi per i nuclei con i redditi più bassi “Nonostante un patrimonio pubblico pari a circa 950 mila alloggi tra gestione degli enti ERP e proprietà dei comuni in Italia (corrispondente al 4% dell’intero patrimonio abitativo) e circa il 20,8% di famiglie in affitto in tutto il paese, il problema dell’espansione dell’offerta di alloggi a basso canone è oggetto di una rimozione collettiva e purtroppo anche del PNRR” scrivono Gianluigi Chiaro e Costanza Pera in apertura.

L’abitare non è stato al centro delle politiche degli ultimi decenni e la casa come intervento primario per contrastare la povertà estrema è insostenibile se gli enti locali non sviluppano un approccio sistemico e duraturo. Il PNRR – Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – e il suo Fondo complementare dovrebbero toccare anche il problema della povertà abitativa, sia in termini di possibilità di dare un tetto a chi ancora non può averne uno, che di miglioramento delle condizioni abitative delle Case Popolari, che di edilizia e rigenerazione urbana di quartieri e aree depressi o degradati. Da qui al 2026 dovremo spendere 13,95 miliardi di euro che con i fondi del Superbonus 110% per la riqualificazione energetica diventano 27,5 miliardi di euro: 14 miliardi destinati a misure che riguarderanno realtà abitative come case per studenti fuori sede (1 miliardo di euro), alloggi per anziani e disabili (500 milioni di euro per ciascun target), Housing per senza dimora (450 milioni di euro), programmi per l’abitare, piani urbani integrati e progetti di rigenerazione urbana (8,55 miliardi di euro). Ma anche rigenerazione di beni confiscati alle mafie (per un investimento di 300 milioni di euro) e contrasto agli insediamenti abusivi per i lavoratori in agricoltura, i braccianti che arrivano dall’altra parte del Mediterraneo (272 milioni di euro). 6 miliardi riguarderanno progetti di rigenerazione urbana volti a ridurre situazioni di emarginazione e degrado sociale in comuni con più di 15.000 abitanti) e Piani urbani integrati per le periferie delle città metropolitane.

Chiaramente si tratta di soldi messi sul tavolo, che però dovranno essere gestiti dai comuni, sulle cui spalle grava il peso della progettazione. Povertà abitativa infatti non significa solamente non avere una casa, ma anche vivere in condizioni di estrema indigenza, sia a livello personale – una casa fatiscente – che comunitario, in zone degradate, senza servizi o senza aree verdi. Significa avere gli strumenti per pensare al di fuori dei confini comunali, con una pianificazione di rigenerazione urbana che consideri il problema dello spopolamento di alcune aree e le prospettive di massiva continua urbanizzazione.

A questi si aggiungono poi gli investimenti riguardanti il 110% che però sono più difficili da quantificare perché non è possibile risalire alla quota di alloggi pubblici che usufruiranno del Superbonus. Anche fra i privati non è tutto oro quello che luccica. Un’analisi pubblicata sulla rivista La voce dagli economisti Valentino Larcinese, Leonzio Rizzo e Riccardo Secomandi – citata nel rapporto – ha osservato che i benefici del Superbonus aumentano con il crescere del reddito. In altre parole ne stanno beneficiando pochissimo i redditi bassi e quelli medi rispetto a quelli più alti.

“L’alternativa alla (ri)costruzione di un affidabile sistema di edilizia residenziale pubblica o con finalità pubbliche – si legge – sarebbe il ricorso allo stanziamento massiccio e annuale di fondi (non di investimento, in questo caso, ma di parte corrente) per il sostegno diretto all’affitto o per ridurre l’incidenza dei canoni rispetto al reddito, intervenendo nei confronti della proprietà edilizia” concludono gli autori.

E soprattutto serve raccogliere dati, dati, e ancora dati sulla povertà abitativa e sull’indigenza, a livello comunale, affinché si possa procedere con una progettazione sensata, veramente inclusiva