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Nba, la vittoria dei Golden State Warriors raccontata con le statistiche

Con la vittoria in gara 6 alle prime luci dell’alba italiana di venerdì mattina, i Golden State Warriors sono tornati ad essere i campioni NBA, dopo un’astinenza di ben tre anni, due dei quali senza nemmeno qualificarsi per i playoff.

La serie di finale apertasi con una vittoria in favore dei Celtics (che tra l’altro avevano dalla loro il favore delle analytics) sul campo degli Warriors per 120 a 108, si è invece conclusa (esito complessivo 4-2) sul campo dei biancoverdi con il punteggio di 103-90 dopo una partenza scattante dei padroni di casa che poi hanno dovuto assistere alla sinfonia corale di Golden State che, con circa quindici minuti di spettacolo cestistico a 360°, ha fatto capire a tutti cosa li ha resi una dinastia.

Dice, dinastia?

Ma non hanno mai vinto più di due titoli di fila, giusto?

Vero, ma detto che ripetersi non è mai comunque un’impresa da poco, per avere un’idea di come i Golden State Warriors, servirebbe dare uno sguardo a come si sono conclusi gli ultimi campionati NBA.

Per farlo, nella grafica che segue, abbiamo riportato i bilanci vittorie/sconfitte (W/L%) degli ultimi ventidue campionati, abbinando a questo valore un gradiente di colore che spazia dal rosso (per i risultati più deficitari) al blu (per quelli migliori), ed inserendo l’indicazione delle due squadre arrivate in finale, aventi un triangolo verso l’alto per i campioni e verso il basso per gli altri finalisti.

Come anticipato, la squadra allenata da Steve Kerr – ora diventato il secondo giocatore/allenatore di sempre (insieme a Phil Jackson, suo allenatore a Chicago) a vincere un titolo in almeno quattro decadi dopo i successi da giocatore tra Bulls e Spurs e il poker come coach dei Warriors – ha partecipato a sei edizioni delle ultime otto Finals, vincendo i Larry O’Brien Trophy in quattro occasioni.

Già questo non sarebbe cosa da poco, ma va sottolineato come nei due anni di assenza, di fianco a Golden State ci fosse un asterisco particolarmente grande dovuto principalmente ad una serie di infortuni che, curiosamente, hanno avuto inizio proprio durante la loro ultima apparizione alle Finals nel 2019 quando affrontarono i Toronto Raptors.

Oltre all’infortunio che costò la rottura del tendine di Achille per Kevin Durant – all’epoca incoronato MVP delle ultime due serie di finale disputate contro i Cleveland Cavaliers di LeBron James – che poi avrebbe salutato i tifosi della Baia di Oakland (Adesso San Francisco nel nuovo Chase Center) per accasarsi in quel di Brooklyn con la casacca dei Nets, nell’ultima gara della serie, Klay Thompson si procurò la lesione del legamento crociato anteriore che lo avrebbe tenuto lontano dai campi per tutta la stagione successiva.

Come se non bastasse, durante il training camp della stagione 2020/21, proprio a ridosso dell’inizio del campionato, la sfortuna tornò a colpire il numero 11 con un infortunio ancora più spaventoso ma in un certo senso “familiare”, vale a dire la rottura del tendine di Achille, come nel caso dell’ex compagno di squadra Durant.

Per circa novecento giorni quindi, i Golden State Warriors sono stati privati di uno dei due Splash Brothers, rompendo di fatto una delle coppie di guardie più forti di sempre e, senza alcun dubbio, il miglior duo di tiratori della storia.

Ma siccome quando la sfortuna si accanisce, c’è davvero poco che si possa fare se non rassegnarsi, per completare l’annata catastrofica 2019/20, dopo poche gare dall’inizio del campionato l’altro Splash Brother – Steph Curry, fresco MVP delle Finals appena concluse – si infortunò ad una mano, saltando di fatto tutta la stagione, decretando definitivamente la fine di ogni speranza playoff, a fronte di un ben poco usuale 23% di vittorie.

Fast Forward 2021/22

Arrivando quindi ad Ottobre 2021 con un Klay Thompson tutto da verificare, uno Steph Curry chiamato a guidare i suo verso una risalita alle posizioni in cui ci si aspettava di poterli vedere ed un roster da rodare con i nuovi innesti, pur rimanendo fedele al “core” dei Big Three (Curry, Thompson e Draymond Green), le chance per la vittoria finale erano quasi inesistenti, se non fosse per quel “quid” che ha reso gli Warriors quello che sono: dei campioni fondati su un sistema.

Ed è stato il meccanismo che una volta di più ha fatto la differenza, dando modo anche agli altri ingranaggi di oliarsi alla perfezione, partendo ad esempio da Andrew Wiggins, ex prima scelta assoluta di Minnesota ed eterno primo violino incompiuto, che si è trasformato in un All Star in grado di contribuire sia in attacco (oltre 17 punti a partita) nella veste di terza o quarta opzione, sia in difesa dove, con il fisico che si ritrova, può marcare tranquillamente almeno tre differenti posizioni.

E sebbene si potrebbe scorrere praticamente tutto il roster degli Warriors per riconoscere a ciascun elemento la propria parte di merito, non si può non menzionare Jordan Poole che nel corso della stagione (18 punti di media in stagione regolare) ha compiuto un’evoluzione tale da farlo riconoscere da Curry e Thompson come il terzo Splash Brother grazie ad alcuni exploit realizzativi come quelli che i tifosi dei Nuggets ricorderanno purtroppo – per loro – bene nel primo turno di playoff.

La serie contro Denver (4-1) è stata il primo passo verso la conquista del titolo che poi ha visto Golden State affrontare prima la rivelazione del campionato – i Memphis Grizzlies capitanati dalla stella Ja Morant – imponendosi con un combattuto 4-2 ed in seguito i Dallas Mavericks della “slovenian sensation” Luka Doncic, battuti al termine di cinque gare nelle finali della Western Conference.

Così come l’approdo in finale degli Warriors non era necessariamente quotato ad inizio stagione, anche il percorso dei Celtics ha avuto un’evoluzione molto interessante che si è concretizzata ad inizio del 2022 quando la squadra allenata dal coach esordiente Ime Udoka ha cambiato definitivamente marcia, specialmente sul fronte difensivo, fino ad arrivare ad una strepitosa cavalcata playoff che li ha visti eliminare in ordine i Brooklyn Nets di Kevin Durant con un secco 4-0, gli ex campioni in carica di Milwaukee guidati da Giannis Antetokounmpo ed i Miami Heat dell’eroico Jimmy Butler al termine di sette combattutissime gare in entrambe le serie.

Nonostante potessero disporre della coppia di giovani stelle – Jayson Tatum (selezione per il primo quintetto All NBA) e Jaylen Brown – affiancati da Marcus Smart, eletto il mese scorso come difensore dell’anno, e da un reparto lunghi che ruota attorno all’esperto al Horford ed al tanto promettente quanto verticale Robert Williams III, per i Celtics, comunque mai domi, è stato chiaro che Golden State aveva quel qualcosa in più, probabilmente l’essere appunto la dinastia (se vogliamo intermittente) a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza.

E per ogni dinastia che si rispetti c’è sempre un giocatore di riferimento che tutti associano inequivocabilmente alla squadra in questione.

Chiaramente ci riferiamo a Stephen Curry, al quale dedicheremo un approfondimento nella seconda puntata di questo speciale per le NBA Finals.