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politica

La statistica del nepotismo nella pubblica amministrazione. Il posto pubblico si eredita?

Avviene per istinto che madri e padri cerchino di provvedere i propri figli di risorse materiali, saperi e attitudini indispensabili al loro futuro. Il trasferimento di capitale fisico, ‘umano’, relazionale, nonché biologico alla prole è, come noto, la prima condizione di una genìa virtuosa e, insieme alla fortuna e al caso, il miglior requisito della conservazione del patrimonio e del perdurare della stirpe. Si tratta di un principio della continuità generazionale applicato, a quanto pare, con buono zelo anche nella Pubblica Amministrazione italiana. Un luogo comune privo di fondamento? Non si direbbe affatto. Esso è, piuttosto, uno dei rari cliché convalidati empiricamente ed esaminati da una mole di letteratura scientifica che converge verso un’unica conclusione: il fenomeno del nepotismo è endemico nell’amministrazione pubblica del nostro Paese.

Lo studio (Intergenerational transfers of public sector jobs: a shred of evidence on nepotism) forse più accurato, condotto da Vincenzo Scoppa, elabora un modello statistico sulla base di dati tratti dal Survey of Household Income and Wealth, indagine condotta a cadenza biennale dalla Banca d’Italia su un campione di circa 8.000 famiglie e 20.000 individui.

Scoppa mette immediatamente in luce alcuni fattori che caratetrizzano il settore pubblico, ovvero lo ‘stile’ di gestione che non sempre corrisponde a stringenti criteri di efficienza, la scarsa concorrenzialità, l’assenza di solidi incentivi alla produttività riservati a dipendenti e dirigenti e l’insuficiente controllo da parte del cittadino, che dispone di poche informazioni e, di nuovo, deboli incentivi a monitorare l’operato dei dipendenti pubblici. Ma esistono anche aspetti che rendono il pubblico impiego molto attraente. I salari medi lordi del settore pubblico superano, infatti, di circa il 20% quelli privati (Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani, Università Cattolica), il turnover è ridotto, ciò che implica maggiori garanzie di stabilità e continuità nel tempo, e il carico di ore di lavoro è mediamente inferiore rispetto al settore privato. Ciò non sorprende, se si considera che assunzioni e salari sono non di rado stabiliti da politici e burocrati in modo da perseguire obiettivi personali o di parte (economici, elettoralistici, ecc.).

Ora, la domanda che ci interessa è: la Costituzione italiana stabilisce all’articolo 97 l’obbligo di «pubblico concorso» per garantire oggettività e trasparenza nelle assunzioni dell’Amministrazione Pubblica. Tuttavia, è possibile che gli impiegati pubblici ricorrano alla loro posizione, alle informazioni e alla rete di relazioni privilegiate di cui dispongono, per favorire alcuni candidati ‘speciali’ – tipicamente i figli -, condizionando l’esito delle selezioni per concorso?

Si tratta di rielaborare i dati SWISH e verificare se, nell’ampio campione disponibile, i figli di dipendenti pubblici godano di una maggiore probabilità di essere assunti. Ebbene, tale probabilità, secondo quanto si ricava dai dati, è fortemente correlata al fatto che un genitore, o entrambi, occupi già un posto nella Pubblica Amministrazione. Qualora l’insider sia il padre, a parità di istruzione, genere, età, stato civile, area geografica e altre caratteristiche individuali, la frequenza con cui si accede al posto pubblico aumenta, nel campione, del 10,5%, ovvero dal 24,5% al 35%, differenza che corrisponde in termini relativi a un balzo del 44%. La madre sembra, invece, esercitare un effetto più contenuto pari al 4,3% (+18% in termini relativi).

Il grado di istruzione è un fattore che, isolatamente considerato, incide direttamente sul successo dei candidati nei pubblici concorsi; per ogni ulteriore anno di studio la probabilità di ottenere il posto aumenta, sebbene non allo stesso modo, in tutte le aree geografiche, ovvero di 2,7 punti percentuali al Nord, 3,2 al Centro e 4,4 al Sud. È, però, interessante correlare il vantaggio intermini di anni di studio alla posizione del padre, cioè al fatto se questi sia o non sia un dipendente pubblico. I dati indicano che un padre già assunto garantisce un vantaggio di circa tre anni di istruzione nei pubblici concorsi; ciò significa che, ad esempio, un diplomato figlio di un dipendente pubblico ha la stessa probabilità di ottenere il posto di chi possieda una laurea triennale, ma sia figlio di lavoratori privati.

Il grafico rappresenta la probabilità di ottenere un posto pubblico in relazione agli anni di studio. Chi vanta un padre nel settore pubblico gode di un evidente vantaggio rispetto a coloro il cui padre lavori nel settore privato.
Il grafico rappresenta la probabilità di ottenere un posto pubblico in relazione agli anni di studio. Chi vanta un padre nel settore pubblico gode di un evidente vantaggio rispetto a coloro il cui padre lavori nel settore privato.

Lo stesso vantaggio è assicurato anche a chi si diploma o si laurea con voti non brillanti: la correlazione tra migliori voti e probabilità di assunzione è positiva per coloro il cui padre lavori nel settore privato; ma è negativa, si badi bene, per i figli di dipendenti pubblici. Chi è meglio formato e competente, e abbia un padre dipendente privato, primeggia nei pubblici concorsi, esattamente come chi è peggio formato, ma abbia un padre dipendente pubblico. Viceversa, i figli di dipendenti pubblici con voti migliori sembrano avere meno probabilità di accedere al posto rispetto ai meno bravi. Paradossale? Non troppo, se si ipotizza che i padri e le madri dei candidati meno capaci si prodighino con più zelo per favorire l’assuzione dei figli, i quali avrebbero, fuori della Pubblica Amministrazione, vita molto meno facile.

La probabilità di ottenere un posto pubblico in rapporto al voto finale di diploma o di laurea. Un padre nel settore pubblico determina un vantaggio evidente rispetto ai candidati che non sono figli di dipendenti Statali. Il fatto più notevole è rappresentato dalla correlazione negativa, per i figli di dipendenti pubblici, tra voto finale e probabilità di accesso (linea continua decrescente); una situazione che sembra discriminare persino entro la stessa categoria di coloro che sono – statisticamente – privilegiati

Un altro aspetto interessante riguarda le aree in cui il nepotismo sembra incidere di più. In questo caso emergono differenze non trascurabili: un padre già assunto aumenta la probabilità di successo per un candidato del 8,7% nel Nord-Ovest, del 9,4% nel Nord-Est, del 10,4% nelle Isole, dell’11,4% al Centro e del 12,1% al Sud.

I figli tendono naturalmente a seguire le orme dei genitori, di cui condividono preferenze, abilità e disposizioni; ma vi sono indizi – quasi probanti – che i risultati ottenuti dallo studio non si spieghino solo con un innato, e comunque non generalizzabile, desiderio dei figli di emulare i padri. Ad esempio, l’effetto padre sembra premiare solo chi lavora nello stesso luogo in cui è nato. Chi si sposta non riceve sostanzialmente vantaggi dall’avere un padre alle dipendenze dello Stato. E la spiegazione più ragionevole è proprio il nepotismo: favoritismi e protezioni funzionano assai meglio entro le reti sociali di appartenenza. Allontanarsene, significa perdere terreno in un sistema in cui appartenenze e parentele contano. Si aggiunga, poi, che la probabilità di trasmissione del posto di lavoro di padre in figlio nel settore pubblico è maggiore rispetto a quella di imprenditori, professionisti e altri lavoratori autonomi. Anche questo rende assai probabile una diffusa presenza di pratiche nepotistiche.

Il nepotismo significa, in buona sostanza, privatizzazione dei profitti e socializzazione dei costi; dunque premi salariali, orari ridotti e maggiori garanzie di continuità e stabilità occupazionali incassate dai meno competenti e capaci a spese dell’efficienza complessiva dell’Ammninistrazione Pubblica. Come sottolinea lo studio, gli schemi retributivi tipici del pubblico impiego in ciò non aiutano affatto. I dirigenti non sopportano economicamente le conseguenze delle loro scelte in sede di selezione; e d’altra parte il raccomandato incontrerà scarsi o nulli incentivi salariali per svolgere meglio il proprio lavoro. La soluzione più efficace secondo Scoppa prevederebbe remunerazioni legate alla performance per chi lavora e premi, o penalizzazioni, per chi seleziona. Introdurre logiche meritocratiche in seno alla Pubblica Amministrazione, un nodo che nessuna riforma ha concretamente affrontato fin oggi, ne aumenterebbe produttività ed efficienza insieme a quelle dell’intero sistema Paese.

 

Data Analysis ospita interventi di  ricercatori e docenti universitari e analisi di data journalist ed esperti su working paper, articoli scientifici e studi che parlano in modo più o meno diretto alla società e alle politiche data-driven. 

Autore: Luca Delvecchio è laureato in Discipline Economiche e Sociali e in Filosofia Teoretica. Collabora con l’Istituto regionale per il supporto alle politiche della Lombardia. È CEO di RTech1605