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cronaca

Giornalisti imprigionati o scomparsi in Russia. Cosa è accaduto negli ultimi trent’anni

Il 4 marzo è stata approvata dalla Duma la contestata legge sulla responsabilità amministrativa e penale per la diffusione delle fake news sull’operato dell’esercito russo o in caso di discredito dell’impiego delle forze armate. Le pene previste variano fino ad arrivare, nel caso di gravi violazioni della legge, a una pena detentiva da 10 a 15 anni. In questi giorni segnati dalla guerra in Ucraina, anche la Rai ha deciso di sospendere tutti i servizi giornalistici dalla Russia. La stessa decisione maturata da Mediaset, così come da altri importanti media europei.

Quello di giornalista in Russia è un mestiere tutt’altro che semplice. Soprattutto a partire dagli anni Novanta il lavoro è diventato progressivamente più pericoloso. Il Comitato per la protezione dei giornalisti (acronimo CPJ), associazione nata con lo scopo di difendere la libertà di stampa e i diritti dei giornalisti in tutto il mondo, cataloga la Russia come “il terzo Paese al mondo per numero di giornalisti morti” dal 1991. Solo Algeria e Iraq la superano nel periodo 1993-1996.

Sono anni in cui appaiono evidenti, guardando con gli occhi di un occidentale, le forti limitazioni alla libertà di stampa in Russia. L’opinione pubblica internazionale iniziò seriamente a interessarsi al fenomeno solo in seguito all’omicidio della giornalista Anna Politkovskaja, uccisa a Mosca il 7 ottobre 2006, nel periodo in cui accusava Putin di aver fatto della Russia uno stato di polizia. Nei suoi articoli per Novaja Gazeta, la giornalista criticava apertamente il Governo per le violazioni dei diritti civili e dello stato di diritto. Secondo i dati raccolti dal CPJ sono ben 36 i giornalisti assassinati dal 1992. Anna Politkovskaja è una dei 31 giornalisti uccisi in Russia tra il 27 ottobre 1999 e il 2022, ovvero da quando Vladimir Putin ha avuto tra le mani le redini del paese come primo ministro o come presidente. Da quando è stato fondato Novaja Gazeta, il giornale più indipendente in Russia, conta sei dei suoi giornalisti uccisi. Una situazione che Dmitrij Andreevič Muratov, direttore di Novaja Gazeta e vincitore del Premio Nobel per la pace 2021, ha definito “insostenibile, tossica”.

Molte di queste morti sono tutt’ora senza un colpevole e si sono verificate in corrispondenza di eventi che hanno segnato al storia russa e provocato critiche all’operato di Putin. Parliamo per esempio delle guerre che hanno coinvolto l’esercito russo in Cecenia e in Ossezia.

Anche altre organizzazioni, come Reporters Sans Frontières, hanno ripetutamente criticato la Russia riconoscendo come fallimentari le indagini su questi omicidi, sottolineando come molti dei giornalisti uccisi fossero critici nei confronti del presidente russo Vladimir Putin. Tra gli omicidi che più si ricordano c’è anche quello di Pavel Klebnikov, caporedattore dell’edizione russa di Forbes. Il suo omicidio a Mosca nel 2004, è stato visto come un colpo contro il giornalismo investigativo in Russia. Il 9 luglio del 2004, dopo la pubblicazione della lista delle persone più ricche di Russia, il giornalista fu assassinato all’uscita della redazione di Mosca e morì nell’ascensore dell’ospedale in cui fu trasportato. Tre ceceni accusati di aver preso parte all’omicidio sono stati assolti. Anche se l’omicidio sembra essere opera di assassini a pagamento, i mandanti dell’omicidio devono ancora essere identificati. Gli oppositori non possono sentirsi tranquilli nemmeno una volta espatriati. Emblematico è il caso del giornalista Arkady Babchenko, emigrato proprio nella vicina Ucraina dopo le minacce subite. I servizi ucraini inscenarono la sua morte prima di farlo riapparire a Kiev in conferenza stampa per proteggerlo e catturare presunti agenti russi.

Non solo gli omicidi irrisolti hanno reso complicato per i giornalisti raccontare la Russia, ma anche i conflitti in cui il paese è stato coinvolto. Sono 12 i giornalisti morti per corpi di arma da fuoco mentre svolgevano il loro lavoro. Fotografi e operatori di camera hanno rischiato la vita per mostrare la guerra, per esempio quella cecena. Come Aleksandr Yefremov, fotografo per il giornale Nashe Vremya, ucciso in Cecenia quando la jeep militare che stava guidando è stata fatta saltare in aria da una mina telecomandata. O Roddy Scott, fotoreporter freelance inglese che ha documentato conflitti trascurati in luoghi come Sierra Leone, Yemen, Iraq, Afghanistan, Etiopia. I soldati russi ritrovarono il suo corpo nella regione di Galashk, vicino al confine con la repubblica dilaniata dalla guerra di Cecenia. Scott è stato apparentemente ucciso da un proiettile finito nel mirino della sua fotocamera durante le riprese del conflitto a fuoco. Secondo il Kavkaz Center, tuttavia, è stato ucciso da solo durante il tentativo di arrendersi.

Negli ultimi anni è invece cresciuto esponenzialmente il numero di giornalisti detenuti, spesso con accusa di attività che andavano contro al cosiddetto bene di Stato. Tra il 2014 e il 2021 sono 18 i giornalisti finiti sotto custodia. Tra questi alcuni reporter della rivista online gestita da studenti DOXA, accusati di incitamento ai minori a partecipare a “attività illegali che potrebbero essere pericolose”. Se condannati, potrebbero rischiare fino a tre anni di carcere secondo  la legge russa. Gli ufficiali del comitato investigativo hanno dichiarato che le accuse di incitamento ai minori derivavano da un video pubblicato nel gennaio 2021, nel bel mezzo delle proteste a livello nazionale a sostegno della figura dell’oppositore Alexei Navalny. Il video, intitolato “Non possono sconfiggere i giovani”, esprimeva sostegno agli studenti che erano stati puniti dalle loro istituzioni educative per aver partecipato a manifestazioni. Secondo i rapporti DOXA ha successivamente cancellato il video su ordine del Roskomnadzor, servizio federale per la supervisione nella sfera della connessione e comunicazione di massa.

La nuova legge voluta da Putin per controllare le notizie sulla guerra è solo l’ultimo degli ostacoli posti di fronte ai giornalisti russi. Le ulteriori restrizioni hanno già portato alla chiusura di alcune testate e all’impossibilità di usare la parola “invasione” riguardo alla guerra in Ucraina.