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cronaca

Come si misura Long-COVID? Ecco cosa sappiamo finora

È iniziato anche il 2022 e siamo in un nuovo picco pandemico, con problemi nuovi che si aggiungono ai vecchi. Ma dopo due anni dal riconoscimento di questo “nuovo coronavirus” è tempo di iniziare a misurarne gli effetti, anzitutto sanitari.
Possiamo iniziare a valutare ciò che faticavamo a misurare finora, per i tempi lunghi che richiede la raccolta dei dati e la loro analisi. Vi ricordate, ne parlavamo ad agosto qui, a proposito degli effetti di COVID-19 sulla salute mentale.

Il 6 gennaio 2022 l’ufficio nazionale di statistica britannico ha pubblicato un corpo di dati sulla prevalenza dei sintomi attualmente in corso a seguito dell’infezione da COVID-19. Si stima che circa 1,3 milioni di persone che vivono in abitazioni private nel Regno Unito, cioè il 2% della popolazione (non degli infettati!), stia vivendo un lungo periodo di post COVID (si intendono sintomi che persistono per più di quattro settimane dopo la prima sospetta infezione da coronavirus e che non sono stati spiegati da qualcos’altro).
Nuovi sintomi hanno influenzato negativamente le attività quotidiane di 809.000 persone (il 64% di quelle che riferivano episodi di long-COVID) e il 20% – una su cinque – lamenta una grossa limitazione dell’autonomia nelle normali attività quotidiane. Il sintomo più comune è sempre la spossatezza, vissuta dalla metà dei rispondenti, mentre il 37% lamenta un olfatto o un gusto alterato o addirittura assente (si parla rispettivamente di parosmia e anosmia/ageusia), il 36% ha ancora difficoltà respiratorie e il 28% problemi a concentrarsi (si parla di Brain-fog, nebbia cerebrale). Altri sintomi comuni sono dolore o costrizione toracica, difficoltà a dormire (insonnia), palpitazioni, vertigini, formicolio agli arti, dolori articolari, depressione e ansia, acufene, mal d’orecchi, sensazione di malessere, diarrea, mal di stomaco, perdita di appetito, febbre alta, tosse, mal di testa, mal di gola ed eruzioni cutanee.

Come metodo, sono state esaminate 351.850 risposte al Coronavirus Infection Survey (CIS) raccolte in quattro settimane fra novembre e dicembre 2021, ponderate per rappresentare persone di età pari o superiore ai due anni. Si tratta dunque in questo caso di una rilevazione fatta direttamente sulla popolazione, interrogando i partecipanti sul proprio stato di salute; non di dati provenienti da cartelle cliniche con diagnosi effettuate dal medico. Rimane il fatto che la salute percepita è considerato un importante indicatore di salute individuale e di popolazione.

L’aspetto più rilevante è che questi sintomi non riguardano di più anziani, ma soprattutto le persone di età compresa tra 35 e 69 anni, con effetti più marcati sulle donne e su persone che vivono in aree più svantaggiate, in coloro che lavorano nel settore sanitario, sociale o nell’insegnamento e nell’istruzione (che ha visto il più grande aumento di casi mensile tra tutti i settori occupazionali) e chiaramente in persone con altre malattie croniche o disabilità.

Capire meglio Long-COVID

Il Long-COVID non è un fenomeno ancora ben compreso e quindi il suo impatto non è facilmente prevedibile. Non si sa esattamente da dove origini: una possibilità è che un serbatoio del coronavirus persista dopo l’infezione acuta, resti in agguato in vari tessuti – come l’intestino, il fegato o il cervello – e continui a causare danni. Un’altra possibilità è che l’ampia risposta immunitaria innescata dall’infezione iniziale possa generare anticorpi e altre reazioni immunologiche contro i tessuti del corpo. Ciò potrebbe continuare a causare complicazioni dopo che l’infezione è stata eliminata.
Lo stesso tempo necessario per riprendersi da COVID-19 è diverso per tutti e la durata del recupero non è necessariamente correlata alla gravità della malattia iniziale o all’essere stati ospedalizzati. Una revisione pubblicata il 1 novembre 2021 su Frontiers in Medicine, ha contato più di 100 sintomi diversi classificabili come long-COVID, ma non è ancora un numero indicativo. “La prevalenza dei sintomi – si legge nelle conclusioni – varia in modo significativo, ma non è spiegabile dal fatto che uno studio ha coinvolto un gruppo di persone con certe caratteristiche piuttosto che un altro; può essere correlata solo a fattori sconosciuti specifici della coorte.

Il vaccino protegge da Long-COVID?

La grande domanda di fondo è inoltre se la vaccinazione abbia un effetto protettivo sullo sviluppo di long-COVID, come ce l’ha sul proteggere la maggior parte delle persone dalla malattia grave. Un articolo pubblicato su Nature sintetizza che al momento gli studi pubblicati non sono d’accordo sul loro effetto protettivo contro il long-COVID: alcuni mostrano che da vaccinati il rischio di long-COVID dopo un’infezione (che ha quindi “bucato” il vaccino) è della metà, mentre altri non mostrano un grande vantaggio in questo senso.

Uno dei più grandi studi finora pubblicati ha raccolto dati da 1,2 milioni di persone che hanno ricevuto almeno una dose di un vaccino COVID-19 e hanno registrato la loro esperienza nell’app COVID Symptom Study, del King’s College di Londra. Il team ha scoperto che un regime vaccinale completo a due dosi ha ridotto di circa la metà il rischio di long-COVID. Ma lo studio, precisa Nature, conteneva sproporzionatamente più donne che uomini e meno persone provenienti da aree a basso reddito. Un altro studio, condotto sui veterani statunitensi ha scoperto che i vaccini COVID-19 per quel gruppo offrivano il doppio della protezione contro l’infezione da coronavirus, anche durante l’impennata del Delta, nel senso che le persone con long-COVID fra i vaccinati erano la metà rispetto al gruppo dei non vaccinati. “Anche così, il numero di persone che hanno sviluppato COVID a lungo a causa di infezioni rivoluzionarie è significativo” racconta a Nature Claire Steves, geriatra del King’s College di Londra e autrice principale dello studio.

Non è insomma così facile avere dei dati solidi su questo aspetto: un conto sono studi scientifici dove viene selezionato un campione rappresentativo che viene poi analizzato, altra cosa è invece fare un “censimento” sulla popolazione esaminando le cartelle cliniche per capire come stanno andando le cose. Sono due approcci diversi ma complementari, che dovranno necessariamente impegnare i sistemi sanitari nei prossimi mesi per capire quali sono le nuove vulnerabilità di comunità con cui dovremmo confrontarci e per orientare i servizi.

Noi dal canto nostro cercheremo di raccontare ciò che emergerà.
Buon 2022.