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cronaca

Cosa ha imparato la comunicazione scientifica dopo due anni di pandemia?

A due anni di distanza dalla comparsa nel nostro orizzonte degli eventi di questo ospite inquietante, credo inizi ad avere un senso provare a tracciare qualche linea su che cosa stiamo vivendo. Mi sono chiesta spesso ultimamente che cosa sto capendo di questa pandemia.

Ripercorro l’elenco dei lavori pubblicati in questo 2021 , che altro non erano, non sono, che i tentativi di intravedere in che direzione va questa nave senza nocchiero in gran tempesta. La traccia che si è focalizzata nella mia mente piano piano, è che la questione centrale rispetto alla possibilità di uscire dall’emergenza è l’equità nell’accesso ai vaccini, e alle cure. A luglio 2021 , e poi ancora a metà novembre  (la settimana dopo avremmo scoperto la variante Omicron), scrivevo che la questione morale è se dobbiamo dirottare le dosi di vaccino ai paesi più ricchi per la dose booster oppure coordinarsi per ridurre la disomogeneità di offerta nel mondo. La chiamavo questione morale. Dopo qualche giorno è arrivata la variante Omicron, e oggi dire che si tratta solo di questione morale mi pare riduttivo.

Omicron ce lo sta insegnando per la terza volta: gli slogan scelti a priori producono informazione falsa. Da “andrà tutto bene”, a “vaccinati e vivi sereno”. L’onesto comunica l’incerto, guardando i dati, ed è pronto ad arricchire la propria posizione. Dai primi dati inglesi che abbiamo  i vaccini sembrano funzionare molto meno su Omicron, per lo meno per quanto riguarda la possibilità di infettarsi, e di presentare dei sintomi. A oggi – 20 dicembre 2021 – non abbiamo dati sufficienti per fare delle riflessioni sulle ospedalizzazioni, né per asserire con certezza che i vaccini ci proteggeranno da nuove chiusure. Ci si vaccina perché un vantaggio rispetto a non vaccinarsi c’è, e si fa il possibile in nostro possesso per non intasare gli ospedali. Non è una salvezza metafisica, quella offerta dalla medicina, ma nella migliore delle ipotesi, statistica. Non sappiamo quanto davvero incideranno le persone non vaccinate sulla diffusione della pandemia, non siamo in grado di “misurare la colpa”. Quello che sappiamo è che finora i non vaccinati intasano gli ospedali più dei vaccinati, minando maggiormente la stabilità dei sistemi sanitari. Non sappiamo quanto il Green Pass funzioni come misura di contenimento dei contagi. Abbiamo qualche risultato pubblicato i giorni scorsi su The Lancet, e il monitoraggio dell’Oms. Risultato: sembra aiuti, ma senza miracoli, e comunque è impossibile misurarne l’effetto isolandolo da quello delle altre misure igieniche come uso della mascherina e distanziamento.

Ci siamo riempiti la bocca di comunicazione scientifica come non mai in questo anno e mezzo. Io per prima. Un fallimento secondo me inevitabile, anche se c’è chi si ostina a proporre decaloghi in 4000 battute o a sventolare “dobbiamo pensarci di più!” (e me lo immagino detto con la voce di Zerocalcare) come se sapessimo realmente dove orientare questa riflessione. Venti mesi di pandemia mi stanno insegnando che approccio scientifico alla comunicazione è adattare la propria opinione corrente su ciò che è giusto fare, ascoltando tutte le voci con la vera onestà intellettuale di mettersi di fronte a tutti con lo stesso atteggiamento autenticamente curioso. E invece abbiamo già deciso che cosa vogliamo dire e sapere, non ci interessa davvero valutare tutti gli interlocutori, ci interessa la guerra di trincea fatta con facili pallottole. Con alcuni è, invero, miseramente semplice inquadrarne la caratura: le fesserie si rivelano in poche parole, la scarsa conoscenza scientifica che finisce per non dar conto della complessità di un fenomeno complesso, anche. Altre volte però non è così semplice capire un’obiezione, e allora è più semplice sentirsi forti con slogan o battutacce, che ben lontane sono dalla vera comicità. Tendenzialmente le persone molto seguite di fronte a un evento importante si danno come priorità prendere al più presto posizione. Come il famoso gioco delle sedie, dove la sfida è sedersi il prima possibile quando la musica si stoppa, perché chi resta in piedi è fuori dal gioco. Il dibattito si appiattisce in un contraddittorio da tribunale animato da robotici entusiasti.

La conseguenza di questo atteggiamento – che si ritrova in tutte le categorie: politici, giornalisti, “influencers” di vario calibro, cittadini in genere – è che diamo credito all’idea che possano già esserci risposte definitive su grandi domande come “quando finirà la pandemia” oppure “come stiamo”. Che ottimismo e pessimismo sono giustificati da dati certi, quando purtroppo non è così: man mano che procede la conoscenza dobbiamo ammetterlo, per essere onesti. In questi giorni le televisioni sono piene di scienziati che vaticinano sulla fine della pandemia, sparando serenamente date di scadenza, salvo che poi quando mi metto a cercare un ricercatore disponibile a rilasciarmi un’intervista lunga su questo per una rivista scientifica ben rispettabile, si tirano indietro quasi tutti. “Non è ragionevole dare i numeri, non me la sento” mi si risponde in privato. Che oroscopo puoi trarre questa sera, mago?/ Io, Filemazio, protomedico, matematico, astronomo/ forse saggio/ ridotto come un cieco a brancicare attorno/Non ho la conoscenza od il coraggio/ per fare questo oroscopo, per divinar responso.

Un esempio è il tema delle cure domiciliari (qui), appiattito sul binomio si può curare a casa- non si può curare a casa, come se si trattasse di scegliere fra parteggiare per il partito della tachipirinaevigileattesa oppure per CureDomiciliariCovid19. La realtà che si è delineata nel corso dei mesi è che stiamo imparando tutti quanti insieme, e che alcuni farmaci nei mesi si sono rivelati più utili di altri, altri ancora come Ivermectina, non utili quanto si sperava. Un altro esempio riguarda che cosa sappiamo sulla nostra salute mentale: tutti a cavalcare esili slogan, quando in realtà si sa ancora poco . Altro esempio: il long-covid.

Un grande filosofo del Novecento, che dedicò la vita a studiare come le persone usano il linguaggio per capire i significati, scrisse che i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo. Quante volte mi capita di ritornare su questa idea. Il linguaggio infatti non è un qualcosa di dato e definitivo, una certificazione che tutti raggiungono con un titolo di studio o con l’età. Il linguaggio che ognuno di noi usa, la trasmissione di significato, è qualcosa di personale e malleabile. La ricerca epidemiologica ha dato ragione al filosofo, quando nel tempo ha chiarito il ruolo dello stimolo linguistico nei primissimi anni di vita: ai figli di genitori “professionisti” vengono insegnate in media 30 milioni di parole in più rispetto ai figli di famiglie supportate dai servizi sociali.

In Italia il dibattito pubblico continua ostinato a guardarsi l’ombelico. Gli sforzi di quelle che qualcuno ha definito “le migliori menti del paese” si continuano a concentrare intorno ai grandi concetti di Libertà e Democrazia applicati a una piccola cosa quale è il Green Pass.
Ma c’è molto altro “sotto” il linguaggio della scienza, di cui dopo migliaia di anni non sappiamo tenere conto. Incredibile a pensarci, che non abbiamo ancora risposte alle domande che ci poniamo da sempre. Ci disorienta rinunciare all’incontro fisico, alla festa. Perché? Alcune interessanti riflessioni (non risposte!) sulla Festa le ho trovate in questa lezione di Adone Brandalise dal titolo “La festa nell’epoca delle passioni tristi e della malinconia” (altra scoperta per la quale devo ringraziare Vittorio Berti). Ancora, una cara amica, studiosa di religioni, mi ha scritto una cosa su cui non avevo mai riflettuto: “Nella Bibbia [nei secoli e secoli di tradizione prima di noi, ndr] la felicità, intesa come condizione ideale, rassicurante e appagante, semplicemente non esiste. Troviamo invece la gioia per il pane e il vino, i pascoli e le messi, per il calore di una casa, per l’amore e l’amicizia”. Stunning.
Siamo sicuri che la normalità per l’uomo sia quella costruita dall’uomo ricco negli ultimi cinquant’anni, senza epidemie, senza crisi, piena di doni e viaggi interstellari? Che essere più connessi gli uni agli altri abbia compresso a tal punto la nostra era da renderci in grado di capire il nostro oggi mentre accade? O forse io, forse io/ ho sottovalutato questo nuovo dio./Lo leggo in me e nei segni che qualcosa sta cambiando/ ma è un debole presagio che non dice come e quando. Da alcune chiacchierate fatte con scienziati che studiano le malattie infettive, il solco mi sembra chiaro.
Buon Natale