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economia

Come si misura l’illegalità e la corruzione?

In una famosa puntata de “I Simpson” il poliziotto Winchester cerca di estorcere una somma di denaro a Homer, il tonto protagonista della serie, che si sta occupando di gestire temporaneamente un baraccone di tiro a segno in un luna park. Non capendo affatto la richiesta di denaro, l’attività viene requisita con un pretesto, mandando in rovina il vero proprietario.

Passando dal mondo degli omini gialli creato da Matt Groening nel 1987 alla realtà, la corruzione smette di fare ridere e inizia a preoccupare seriamente.

Se è difficile dare una stima efficace dei fenomeni illegali, misurare quello del pagamento di una somma di denaro – o di altra prestazione – per ottenere in modo indebito un favore è forse ancora più difficile.

I modelli sociali e politici sono differenti nel mondo, così come l’idea stessa del significato di corruzione. Quando Winchester chiede dei soldi al povero Homer per non fargli subire, a torto o ragione, un provvedimento di confisca, è un fatto sul quale pochi potrebbero avere dubbi a classificare come illecito. Ma quando usciamo dalla sfera pubblica ed entriamo in quella privata? È ancora corruzione quando si tratta di un regalo di un bene o un servizio da un fornitore alla ricerca di clienti? La risposta non è così scontata: dipende, appunto, da molteplici fattori culturali e sociali, dal valore del bene e dalla natura dello stesso (se si tratta di un servizio per la professione o del tutto personale, ad esempio).

E tuttavia non ci si può tirare indietro nel provare a trovare una misura del fenomeno, anche guardandolo da punti di vista diversi. Da un lato, infatti, vi sono le statistiche giudiziarie: reati denunciati e condanne, ad esempio. Ma, tornando nella Springfield dei Simpson, sarebbe un buon indicatore preso da solo? Forse no, perché esiste un interesse convergente tra corruttore e corrotto (preferisco pagare una tangente per non subire un altrimenti giusto provvedimento).

Dall’altro vi è la percezione del fenomeno: chiedendo direttamente a un campione rappresentativo di cittadini è possibile intuire quale sia il livello del “sentiment” rispetto alla corruzione: laddove si risponde in modo maggiormente positivo è probabile che vi sia, effettivamente, maggiore incidenza. Ma è solo una questione di approssimazione (cioè alcuni Paesi sono più tendenti alla corruzione di altri) o è anche una misura effettiva sulla quale basare una valutazione generale?

Infine, vi è un metodo indiretto, sempre incentrato su interviste, che misura invece quanti hanno avuto effettivamente a che fare o hanno avuto una conoscenza diretta di fenomeni corruttivi. In questo caso il rischio tuttavia è nel bias, ossia nel pregiudizio che la formulazione della domanda, il contesto o la modalità di raccolta dei dati possa influire sulla veridicità della risposta. Ad esempio, se il questionario fosse fatto telefonicamente e da un soggetto che non si qualifica, quanti rischierebbero di dire che effettivamente sono stati loro stessi (o conoscono direttamente) i colpevoli di un reato?

A livello internazionale la corruzione è anche un fenomeno associato al rischio d’impresa o finanziario: investire denaro o acquistare, ad esempio imprese oppure beni immobili, in un Paese comporta l’esposizione a problemi nel caso di richieste di tangenti, se il sistema legale e di protezione in quel luogo non sia efficiente. Con appunto la possibilità di dover interrompere l’investimento e perdere quanto già speso fino a quel momento.

Global Risk Profile, società svizzera specializzata nella valutazione di asset e dei rischi relativi agli investimenti con focus particolare su anticorruzione e reati white collars, da tre anni pubblica una classifica che ha il valore di aggiungere parecchie informazioni analitiche ai dati di misurazione della corruzione, che sinteticamente quindi rappresenta una misura del rischio potenziale dei diversi Paesi.

Tra i molti indicatori che vengono presi in considerazione, oltre a quelli diretti sopra citati e raccolti da organismi indipendenti in modo accurato, ve ne sono altri che cercano di misurare il contesto. Ad esempio, la ratifica di convenzioni anticorruzione, o l’open government e ancora la partecipazione pubblica ai processi di budget, quanto siano efficaci le misure preventive (efficienza della pubblica amministrazione e indipendenza degli organismi di controllo), e la capacità di reprimere efficacemente i reati.

Nel caso di questo indice, quindi, l’approccio complessivo rende più l’idea del rischio effettivo di incappare in fenomeni corruttivi, che è uno dei fattori da tenere in considerazione quando si fanno affari all’estero. Il rischio della controparte è quindi, anche, strettamente legato al contesto nel quale essa è costretta ad operare.

Se siete arrivati a leggere fino a qui, vi meritate di sapere come è andata l’Italia nel 2020: in estrema sintesi, appena sufficiente. Global Risk Profile assegna al nostro Paese il 41° posto al mondo (su ben 198 valutati), con un punteggio di 31,56 in una scala tra 0 – minimo – e 100. Questo numero sintetico comporta che lo Stivale è tra il cluster dei Paesi con rischio di corruzione “basso”.
Meglio di noi fanno Costa Rica e Cile, ad esempio, e, anche se di poco, gli Stati Uniti. In Europa (considerando tuttavia tutti i paesi del continente e non solo quelli dell’Unione), ci posizioniamo a metà classifica. Lontanissimi dai Paesi baltici, che occupano le prime quattro posizioni (con la Danimarca al primo posto), ma anche distanti dai partner con i quali siamo più in competizioni nei mercati globali: la Germania è 12ma e la Francia 21ma, due posizioni davanti alla Spagna. Peggio di noi fanno generalmente soltanto i Paesi dell’Est Europa (ma non la Polonia, che ci supera di ben sette gradini).

L’importanza di scalare, e anche rapidamente, queste classifiche internazionali è fondamentale non solo – e certamente non come primo motivo – per apparire migliori: ma lo è soprattutto per attuare policy stringenti e fare di più nella prevenzione del rischio della corruzione.

Questo è centrale per essere più attrattivi verso investimenti esteri, che possono scegliere il nostro Paese anziché altri come destinazione. Processi decisionali sicuri, rapidi e trasparenti aiutano le imprese straniere ad aprire filiali e a sottoscrivere partnership nel nostro Paese senza burocrazie opache che cercano di approfittare per ottenere vantaggi illegali.

Insomma, il Global Corruption Index ci dice non solo come siamo, ma indica anche in quali aspetti dovremo migliorare per essere più attrattivi nel business globale. Forse faremo meglio a dare ascolto a questi numeri.