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Nba, come sono andate le Finals? Cronaca ragionata di una stagione raccontata con i numeri

Cinquanta. Cinquanta è il numero che meglio (e doppiamente) rappresenta le Finals NBA appena concluse.

Sì perché, la gara-6 che ha consegnato il titolo ai Milwaukee Bucks, dopo esattamente cinquant’anni, è stata suggellata dal cinquantello di Giannis Antetokounmpo, regalando alla NBA una nuova storia destinata ad entrare negli annali del gioco.

Dal punto di vista prettamente numerico, i punti segnati dal Greek Freak rappresentano il sesto miglior risultato di sempre per una partita delle finali seguendo i 61 di Elgin Baylor, i 55 di Michael Jordan e Rick Barry, i 53 di Jerry West ed i 51 di LeBron James, ma sono la miglior prestazione andata in scena in una gara risultata poi decisiva per chiudere la serie.
Milwaukee Bucks 4 – Phoenix Suns 2

Dicevamo di una storia, già una storia che tratta due realtà piccole, due mercati non di portata paragonabile a New York o Los Angeles, ma nemmeno della San Francisco in cui sono di casa i Warriors.

Neanche a farlo apposta, le due franchigie finaliste sono legate da un destino comune iniziato quasi cinquanta (ancora!) anni fa, per l’esattezza cinquantatre, nel lontano 1968, quando vennero ammesse come squadre di espansione per il progressivo aumento di partecipanti al campionato NBA.

Come solitamente accade, i risultati del primo anno furono assolutamente modesti, per non dire scadenti, ma quantomeno, il record consentì alle due squadre di aver a disposizione un maggior numero di possibilità di “pescare” bene al draft successivo tra i tanti talenti universitari.

Curiosamente, anche in quell’occasione, gli dei del basket strizzarono l’occhio alla città di Milwaukee, permettendo ai Bucks di mettere le mani sull’allora Lewis Alcindor, divenuto poi negli anni seguenti Kareem Abdul Jabbar, tutt’ora primatista per punti segnati in carriera, tranquillamente oltre quota 38mila.

Ma lasciando da parte la storia (passata), come siamo soliti fare noi di Info Data, anche in questa occasione abbiamo dato uno sguardo a come si è arrivati a questa finale attraverso i numeri e più precisamente ci siamo concentrati su quelli che fossero i risultati – in termini di bilancio vittorie e sconfitte in regular season – delle due finaliste, mettendoli a confronto anche con le restanti 28 squadre, sia per la stagione corrente ma più in generale per tutti i campionati del nuovo millennio.

Nel grafico che segue, sono rappresentate le performance delle 30 squadre NBA delle ultime ventuno stagioni, colorando ogni combinazione squadra-anno con un gradiente che spazia dall’arancio scuro per i risultati più modesti fino al blu intenso associato ai migliori record.
In aggiunta le due squadre finaliste sono rappresentate, a differenza degli altri cerchietti colorati, con un triangolo il cui orientamento corrisponde all’esito della finale.

Basandosi solamente sui risultati della regular season, Phoenix si è presentata ai nastri di partenza dei playoff con il secondo miglior record della Lega (71%), dietro solo a quello degli Utah Jazz che hanno quindi soffiato alla squadra dell’Arizona la certezza di avere sempre il vantaggio del fattore campo nelle serie a venire.

Il bilancio sopra al 70% di questo campionato è stato un cambiamento più che radicale rispetto al recente passato (ultime sei stagione mai sopra il 50%) anche se non del tutto inaspettato per via della firma di Chris Paul nell’estate precedente, grazie alla quale Phoenix è riuscita a trovare la presenza – sia in campo che in spogliatoio – necessaria per far compiere il salto di qualità ad un gruppo di giovani talentuosi che aveva disperatamente bisogno di un punto di riferimento da affiancare alla stella Devin Booker.

La cavalcata verso la finale dei Suns è poi cominciata subito con la prima prova del nove rappresentata dai Lakers, campioni uscenti in carica, presentatisi però alla post season piuttosto incerottati a seguito degli infortuni di LeBron James ed Anthony Davis.

Pur vincendo gara-1 Phoenix si è ritrovata sotto 2-1, salvo poi riuscire a chiudere la serie sul 4-2 anche in virtù del definitivo forfait di Davis, spianando la strada per il secondo turno nel quale la pratica Denver Nuggets (orfani del secondo violino Jamal Murray) è stata archiviata con il famigerato “sweep” per un secco 4-0.

Tolta la finale, probabilmente la serie più emozionante dei Suns è andata in scena durante le finali della western conference in cui gli avversari erano i Los Angeles Clippers guidati dal duo Kawhi Leonard e Paul George che hanno venduta cara la pelle nonostante siano partiti in svantaggio 2-0 dopo le prime due partite.

Nella sfida che valeva l’accesso alle Finals, al netto dello show balistico in cui Booker e George si sono scambiati colpi su colpi, l’elemento di maggiore tensione è stato rappresentato dalle due assenze di lusso piovute all’improvviso a metà della serie quando Leonard per un infortunio e Paul per il protocollo anti-Covid sono stati relegati ai box fino al termine della contesa conclusasi poi 4-2 in favore dei Suns.

Il cammino di Milwaukee invece è sicuramente stato più lineare rispetto alle stagioni precedenti, ma di certo non meno emozionante durante la scalata alla eastern conference.

Reduci da quattro stagioni in cui il bilancio è sempre cresciuto dal 51% della stagione 2016/17 fino al 77% di quella precedente, i Bucks si sono presentati ai playoff con il terzo miglior record ad est (64%) con un profilo tutto sommato più basso rispetto al passato probabilmente dovuto più alla presenza del super team assemblato dai Brooklyn Nets rispetto ad eventuali “mancanze” proprie.

A differenza di molte squadre infatti, la formazione allenata da coach Budenholzer, nel corso degli anni ha saputo aggiungere con pazienza i singoli tasselli necessari per raggiungere l’equilibrio tecnico-tattico in grado di bilanciare alla perfezione il nucleo originale costituito da Antetokounmpo e Khris Middleton, in particolar modo con l’addizione nella passata estate di Jrue Holiday, solido esterno con punti nelle mani ma soprattutto considerato uno dei migliori difensori della NBA.

Partiti in quarta con il perentorio 4-0 rifilato ai vice campioni in carica di Miami, l’entusiasmo dei Bucks è stato subito ridimensionato dai Nets che hanno fatto valere il fattore campo portandosi direttamente sul 2-0 infliggendo uno scarto di ben 39 punti al termine di gara 2 conclusasi 125-86, prima che l’equilibrio venisse ripristinato nelle due gare disputate a Milwaukee fissando la serie sul due pari, anche alla luce degli infortuni che hanno poi costretto i Nets a giocare con sola una (e mezzo) delle loro tre punte di diamante.

La serie, dopo un paio di prestazioni incredibili da parte di Kevin Durant (49 punti in gara 5 e 48 in gara 7) si è conclusa con la vittoria dei Bucks solo al termine del tempo supplementare di gara 7 che ha poi spalancato le porte per l’ultimo ostacolo prima delle finali rappresentato dai promettentissimi Hawks che, pur perdendo la sfida (4-2), si sono comunque tolti la soddisfazione di partire con il botto vincendo la prima gara e rifilando ventidue punti di scarto in gara-4.

La finale invece, che fortunatamente non è stata privata della presenza fondamentale di Chris Paul, è partita all’insegna dei Suns che si sono aggiudicati entrambe le gare disputate a Phoenix, giocando una pallacanestro fatta di movimento palla e pericolosità dal perimetro, ma che ha saputo anche valorizzare DeAndre Ayton, l’atletico centro al terzo anno di esperienza che, con l’innesto di CP3, è fiorito in quello che i Suns speravano potesse diventare quando lo hanno scelto con la chiamata numero uno assoluta al draft del 2018 (quello di Luka Doncic scelto alla numero 3, tanto per capirci).

La serie però, una volta tornata a Milwaukee è stata riportata in pareggio e, nonostante le ultime tre gare abbiano visto uno scarto massimo di sette punti, probabilmente i valori in campo complessivi hanno dimostrato che l’organico dei Bucks era superiore e che Giannis Antetokounmpo è stato semplicemente “troppo” per i Suns.

Come se non bastasse, i suoi due secondi violini non hanno mai fatto mancare il proprio contributo su entrambi i lati del campo con Middleton che ha chiuso la serie oltre venticinque punti di media e Holiday sempre pronto a fare la giocata difensiva giusta nei momenti chiave della sfida come simboleggiato dalla palla rubata a Devin Booker nei secondi finali di gara-5.

 

“This is the hard way to do it… We f * cking did it”

Il proclama del neo campione greco nel post gara-6 si porta dietro due concetti fondamentali che, in qualche modo, potrebbero essere un messaggio alla Lega per gli anni a venire.

In primis, il discorso “hard way” si riferisce all’aver vinto in un mercato piccolo con una modesta esposizione mediatica, ma soprattutto è legato alla crescita organica, vale a dire partendo dalle fondamenta della squadra gettate nel corso del tempo e perfezionate con qualche tassello (vincente) senza però dover fare affidamento alla free agency in maniera massiva, ricorrendo quindi alla “scorciatoia” dei cosiddetti “super team”.

Il fatto che anche l’altra finalista, Phoenix, appartenga alla stessa categoria di esposizione mediatica è comunque un buon segnale per l’equilibrio del campionato, anche se in molti hanno fatto notare come gli infortuni alle varie corazzate di talento, Lakers e Nets su tutti, abbiano giocato un ruolo fondamentale nel far arrivare in finale Bucks e Suns.

 

Quello che è insindacabile, a prescindere da tutto, è la definitiva consacrazione di Giannis Antetokounmpo che, a soli ventisei anni, può vantare un palmares decisamente elitario, coronato in bellezza dal titolo di MVP delle Finals.

Per mettere in evidenza gli ultimi anni eccellenti del Greek Freak, oltre ai suoi riconoscimenti (evidenziati in blu), nel grafico che segue abbiamo elencato i vincitori dei sei premi individuali assegnati dalla stagione 2000/01, con particolare attenzione ai giocatori non americani che sono stati colorati in arancio.

Ricapitolando velocemente le sigle per chi non fosse familiare, MVP (Most Valuable Player) rappresenta il miglior giocatore, DPOY (Defensive Player Of the Year) il miglior difensore, MIP (Most Improved Player) il giocatore maggiormente migliorato, SMOY (Sixth Man Of the Year) il miglior sesto uomo, ROY (Rookie Of the Year) il miglior giocatore esordiente.

Nelle ultime cinque stagioni, la stella dei Bucks si è portata a casa quattro trofei distinti, riuscendo a vincere per due volte di fila il titolo di MVP della stagione regolare (2018-19 e 2019-20) ed è interessante notare come gliene manchino solo due in particolare.

Sicuramente, visto il percorso che lo ha visto approdare nella NBA da semi sconosciuto, anche per via di una fisicità tutta da verificare, sarebbe stato davvero impensabile vederlo concorrere per il titolo di miglior matricola dell’anno.

Analogamente, per la crescita che ha dimostrato, abbinata alla fiducia che la franchigia di Milwaukee ha avuto nei suoi confronti, già dalla seconda stagione (2014-15) l’MVP delle Finals era entrato in pianta stabile nel quintetto iniziale, rendendolo così di fatto non eleggibile per un riconoscimento riservato a chi gioca un numero minimo di partite in uscita dalla panchina, spianando però la strada per il premio di Most Improved Player nell’anno 2016-17.

E se un giocatore greco è stato in grado di aggiudicarsi tutti questi trofei, non c’è da stupirsi se recentemente il trend sta proseguendo in una direzione molto più globalizzata rispetto a quanto accadeva in passato.

Tanto per rinfrescare quanto accaduto nelle sole ultime tre stagioni, dei diciotto premi complessivamente disponibili, ben nove sono stati assegnati a giocatori di nazionalità non americana.

Oltre ai riconoscimenti vinti da Antetokounmpo, l’MVP di questa stagione regolare è stato Nikola Jokic di nazionalità serba, il giocatore più migliorato di due anni fa è stato consegnato al camerunense Pascal Siakam, mentre nello stesso campionato la migliore matricola è stato il giovane astro nascete sloveno Luka Doncic.

Fatta eccezione per il 2019-20, anno in cui il Greek Freak ha messo le mani anche su questo premio, nelle ultime quattro stagioni, il titolo di miglior difensore ha avuto un nome e cognome preciso: Rudy Gobert, centro titolare degli Utah Jazz e faro della difesa anche della nazional francese.

 

Se state seguendo le Olimpiadi, ed in particolare il torneo di basket, pensate che sia un caso la sconfitta degli Stati Uniti nella gara inaugurale proprio contro la Francia di Rudy Gobert?
E i 48 punti segnati (seconda prestazione di sempre) da Luka Doncic nel suo esordio olimpico contro l’Argentina, sono un’altra coincidenza?

Potrebbe essere, ma ci piace pensare che gli orizzonti cestistici si siano definitivamente allargati.