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economia

Erano 40 milioni nel 2015. Chi sono oggi i Neet nei Paesi ricchi?

Nel 2015 nei Paesi Ocse si contavano 40 milioni di Neet. Ovvero i giovani che non lavorano, non studiano e non stanno completando un periodo di formazione. Sono il segno più evidente di una crisi che, come ricorda la stessa Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico nel suo rapporto 2016 “Society at a glance”, ha colpito soprattutto i più giovani. È infatti nella fascia di età tra i 15 ed i 29 anni che si concentrano i tassi più alti di disoccupazione. E anche chi lavora ha maggiori probabilità di farlo sulla base di un contratto a tempo determinato. Aiutare chi invece un’occupazione non ce l’ha costa ai Paesi Ocse in media un punto di Pil. Senza contare le conseguenze sociali: il tasso di persone che lamentano problemi di salute è cinque volte più alto tra i Neet che tra chi ha un lavoro.
Tutte problematiche, queste, che si acuiscono in maniera particolare in Italia. A cominciare dagli effetti della crisi sull’occupazione giovanile. A livello Ocse la crisi del 2008 ha causato un aumento del 2,5% su base annua della disoccupazione nella fascia di età compresa tra i 25 e i 29 anni. Il dato, come si vede dalla prima tabella della prima pagina dell’infografica, è rimasto stabile fino al 2013, quando il tasso di occupazione dei più giovani ha ripreso a salire. Nel nostro Paese è successo invece il contrario: dal 2008 ad oggi la percentuale di chi ha tra i 25 ed i 29 anni ed ha un lavoro è calata di dodici punti. E, ancora peggio, è scesa al di sotto di quella più generale. Ovvero del tasso di occupazione della popolazione tra i 15 ed i 64 anni, che dal 2008 ad oggi ha perso poco meno del 2,5%. L’Italia è l’unica tra i principali Paesi Ocse ad avere una percentuale di occupati superiore nella fascia di età 15-64 che in quella 25-29. Segno che, qui più che in altre parti del mondo, il conto della crisi lo stanno pagando i giovani.
 

 
Anche quelli che un lavoro ce l’hanno però, come mostra la seconda tabella della prima pagina, devono fare i conti con la precarietà. Nel 2015 il 14% della popolazione attiva, di età cioè compresa tra i 15 e i 64 anni, aveva un contratto a tempo determinato. O, comunque, con una scadenza fissa. Se però ci si concentra sui giovani tra i 15 ed i 24 anni, la percentuale schizza al 57%. L’aumento dei giovani precari è iniziato nel 2003, in coincidenza con l’entrata in vigore della legge Biagi e dell’introduzione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa. E con lo scoppio della crisi non ha fatto che aumentare.
Il risultato di questi due fattori, lo si vede nella seconda pagina dell’infografica, è l’aumento dei Neet. Ovvero i giovani “not in education, employment or training”. Anche in questo caso nei Paesi Ocse si è visto un incremento tra il 2008 ed il 2009, dopodiché la percentuale di giovani che non studiano e non lavorano è andata calando. In Italia già rappresentavano il 20% della popolazione di età compresa tra i 15 e i 29 anni prima della crisi, nel 2014 sono arrivati al 27,5%. Come si nota nella tabella successiva, il 46% di chi appartiene a questa generazione studia, il 26% lavora, gli altri non fanno nulla. E, cosa ancor più grave, il 15% è classificato come inattivo. In altre parole, ha smesso di cercare un’occupazione.
Le conseguenze a livello economico sono enormi. Secondo le stime dell’Ocse, visualizzate nella terza pagina dell’infografica, i Neet costano al nostro Paese 1,3 punti di Pil. Che sono esattamente la stessa quota che nel 2014 l’Italia ha investito in ricerca. Più di Roma, in termini di percentuale sul prodotto interno lordo, spendono solo Belgio, Grecia e Turchia. La seconda parte del grafico mostra quanti, nella fascia d’età considerata, hanno vissuto anche solo un periodo da Neet. Nel nostro Paese è toccato alla metà dei giovani tra i 15 ed i 29 anni. E il 32% di loro è stato senza studiare né lavorare per più di un anno. Peggio è andata solo ai coetanei greci.
Oltre agli effetti più generali, ci sono anche quelli che riguardano la vita delle singole persone, rappresentati nell’ultima pagina dell’infografica. Quello più ovvio riguarda le difficoltà nell’uscire di casa e mettere su famiglia. Non a caso, il 75% dei Neet italiani vive ancora a casa di mamma e papà. C’è chi per uscire di casa ha scelto di trasferirsi con dei coinquilini (2,26%), ma solo il 2,3% riesce a vivere da solo. Il 4,2% è andato a convivere o si è sposato. E, con buona pace del Fertility day, solo il 15,3 vive in una coppia e ha messo al mondo dei figli.
C’è poi un ultimo aspetto, legato alla salute. Ocse ha messo in rapporto il numero di Neet che dichiara di avere problemi di questo tipo con quello dei coetanei non Neet. A livello Ocse il tasso è cinque volte superiore. Questo significa che per ogni ragazzo tra i 15 ed i 29 anni con problematiche sanitarie che studia o lavora, ce ne sono cinque tra chi non ha un’occupazione e non segue un corso di studi. In Italia, questa l’unica buona notizia, il rapporto scende a 2,5. Merito di un Servizio sanitario nazionale in larga parte gratuito. E tale proprio perché mantenuto dalle tasse pagate da chi genera un reddito. Ma se i giovani non riescono a trovare lavoro, anche da questo punto di vista la situazione del nostro Paese è destinata a peggiorare.

Ultimi commenti
  • Gionni |

    E’ stato considerato il lavoro in nero? Nel sud Italia io vedo tantissimi ragazzi che fanno lavori attinenti l’edilizia, oppure lavori di cameriere nel settore turistico, nei saloni di barbiere, ecc. e posso assicurare che pochissimi sono in regola. Sono in genere ragazzi che hanno abbandonato gli studi e che a causa di ciò tranne rari fortunati esempi purtroppo potranno ambire per tutta la vita solo a lavori di questo tipo non avendo alcun titolo professionale.

  • Gionni |

    E’ stato considerato il lavoro in nero? Nel sud Italia io vedo tantissimi ragazzi che fanno lavori attinenti l’edilizia, oppure lavori di cameriere nel settore turistico, nei saloni di barbiere, ecc. e posso assicurare che pochissimi sono in regola. Sono in genere ragazzi che hanno abbandonato gli studi e che a causa di ciò tranne rari fortunati esempi purtroppo potranno ambire per tutta la vita solo a lavori di questo tipo non avendo alcun titolo professionale.

  • Alessandro |

    Bisognerebbe capire se con “inattivi” si prendano in considerazione anche i/le casalinghi/e (se il 20% vive in coppia con figli…). Si vuole infatti rivestire il fenomeno di una connotazione negativa senza interrogarsi su quali potrebbero essere, ad esempio, le ragioni che portano un neet ad essere più soggetto a malanni – logicamente verrebbe infatti da pensare il contrario: più tempo libero, meno stress, più sport, dunque più salute – non meno. Se il lavoro cala per effetti congiunti di meccanizzazione e semplificazione burocratica (meno posti nel settore dei servizi) bisognerebbe intervenire con politiche di riduzione dell’orario di lavoro come si è fatto in passato, nonchè politiche di redistribuzione della ricchezza, come sappiamo sempre più iniquamente concentrata nelle mani di pochi. Comunque la si veda, un neet rimane a carico dello stato, e dunque dei cittadini che pagano le tasse. Mantenerli in un modo o in un altro (reddito di base come ventilato da alcuni) ha poca importanza, a meno che non li si voglia far morire di fame. All’inizio del secolo scorso le donne lavoratrici erano pochissime, oggi abbiamo una disoccupazione che si aggira attorno al 12%, forse abbiamo avanzato una pretesa (quella di lavorare tutti) già in partenza inadeguata. Se il lavoro casalingo è, a tutti gli effetti, un lavoro, allora forse sarebbe giusto riconoscervi un compenso, perchè la casa non diventi una necessità ma una scelta e non vincoli una persona ad un’altra perché dipendente economicamente. Bisognerebbe inoltre smetterla di attribuire ai neet il titolo di “fannulloni”, quella che loro mettono in atto è una sorta di resistenza passiva spontanea, di rifiuto verso le condizioni attuali e come tale andrebbe riconosciuta. Sfortuna vuole che, in una realtà che non ha più bisogno di manodopera, una resistenza passiva sia del tutto inefficace.

  • Alessandro |

    Bisognerebbe capire se con “inattivi” si prendano in considerazione anche i/le casalinghi/e (se il 20% vive in coppia con figli…). Si vuole infatti rivestire il fenomeno di una connotazione negativa senza interrogarsi su quali potrebbero essere, ad esempio, le ragioni che portano un neet ad essere più soggetto a malanni – logicamente verrebbe infatti da pensare il contrario: più tempo libero, meno stress, più sport, dunque più salute – non meno. Se il lavoro cala per effetti congiunti di meccanizzazione e semplificazione burocratica (meno posti nel settore dei servizi) bisognerebbe intervenire con politiche di riduzione dell’orario di lavoro come si è fatto in passato, nonchè politiche di redistribuzione della ricchezza, come sappiamo sempre più iniquamente concentrata nelle mani di pochi. Comunque la si veda, un neet rimane a carico dello stato, e dunque dei cittadini che pagano le tasse. Mantenerli in un modo o in un altro (reddito di base come ventilato da alcuni) ha poca importanza, a meno che non li si voglia far morire di fame. All’inizio del secolo scorso le donne lavoratrici erano pochissime, oggi abbiamo una disoccupazione che si aggira attorno al 12%, forse abbiamo avanzato una pretesa (quella di lavorare tutti) già in partenza inadeguata. Se il lavoro casalingo è, a tutti gli effetti, un lavoro, allora forse sarebbe giusto riconoscervi un compenso, perchè la casa non diventi una necessità ma una scelta e non vincoli una persona ad un’altra perché dipendente economicamente. Bisognerebbe inoltre smetterla di attribuire ai neet il titolo di “fannulloni”, quella che loro mettono in atto è una sorta di resistenza passiva spontanea, di rifiuto verso le condizioni attuali e come tale andrebbe riconosciuta. Sfortuna vuole che, in una realtà che non ha più bisogno di manodopera, una resistenza passiva sia del tutto inefficace.

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