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politica

Migrazioni e salute in Europa: quanti e quali dati possediamo?

 

 

Qual è la disponibilità e l’integrazione dei dati sulla salute dei rifugiati e dei migranti nei sistemi informativi sanitari in Europa? A questa domanda ha cercato di rispondere il rapporto 66 della serie Health Evidence Network (HEN) dell’OMS, pubblicato a ottobre 2019.

Il documento è una revisione della letteratura peer-reviewed e della letteratura grigia pubblicata in inglese, tedesco e russo tra il 2000 e il 2018, per un totale di 696 studi esaminati, teorici ed empirici e ciò che è emerso è che solo 25 paesi su 53 posseggono dati sulla salute di queste popolazioni, con forti differenze nella disponibilità, nel tipo di dati e nelle principali fonti. A eccezione dei Paesi con registri di popolazione, l’integrazione dei dati era spesso limitata, e le indagini di monitoraggio della salute e gli approcci di record-linkage erano sottoutilizzati.

Gli studi italiani sono molti, ma possiamo dire che l’Italia è fra i paesi che più raccoglie dati in questo senso in Ue? “No, perché i grafici riportano il numero di articoli identificati con la letteratura, che non significa che l’Italia è uno dei paesi che raccoglie più dati” spiega a Infodata Silvia Declich, del Centro Nazionale per la Salute Globale dell’ISS e reviewer del documento HEN.

La metà degli 696 studi (348) ha valutato un esito di malattia infettiva, un quinto (140) ha valutato una malattia non trasmissibile (NCD) e solo il 15,5%  (108 studi) ha valutato un problema di salute mentale. Scopriamo che l’Italia è fra i paesi con il più alto numero di studi realizzati per malattie infettive, a causa dell’allarme (assolutamente non motivato) scatenato dalla risonanza degli sbarchi degli ultimi anni, e con pochi studi sulle malattie  e non trasmissibili, e sui disturbi mentali delle persone migranti. Inoltre gli studi italiani riguardano la malattia mentale in generale, mentre in Svezia, Danimarca, Olanda e Finlandia – per fare un paragone – gli studi sono di più e soprattutto differenziano fra studi sull’ansia, sulla depressione, sulla schizofrenia.

Un altro aspetto da tenere in considerazione è che in Italia le fonti dei dati sono principalmente cartelle cliniche, registri di malattia e sistemi di notifica che hanno molte limitazioni – prosegue Declich – mentre vengono utilizzati poco database nazionali, survey di popolazione e record linkage che producono migliori informazioni”.

Dei 696 studi, solo il 14% (97 articoli) ha utilizzato registri specifici per malattia che includevano rifugiati o migranti, mentre solo il 5,3% (37 studi) utilizzava i dati ottenuti dalle indagini di monitoraggio sanitario tra i rifugiati e migranti. Circa un quinto degli studi (154) ha utilizzato record linkage delle fonti per collegare i dati demografici dei migranti con quelli sull’utilizzo dei servizi sanitari e con le variabili socioeconomiche; mentre e un altro quinto (133 studi) ha utilizzato le cartelle cliniche e i dati di utilizzo dei servizi sanitari per valutare la salute dei rifugiati e dei migranti.

Quali sono dunque gli aspetti che dovremmo migliorare in Italia nel monitoraggio della salute delle persone migranti? “È importante inoltre integrare elementi chiave (paese di nascita, nazionalità, durata del soggiorno, motivo della migrazione) nei sistemi di raccolta dati esistenti per facilitare, l’identificazione di sottogruppi a rischio conclude Declich. Stabilire e rafforzare un approccio proattivo e personalizzato alla raccolta di dati per rifugiati e migranti che affronti le difficoltà di accesso di queste popolazioni all’assistenza sanitaria, le loro barriere linguistiche e le dimensioni ridotte dei campioni. E ancora: utilizzare e ampliare le Health monitoring surveys nazionali, rafforzare i collegamenti di dati tra i registri (ad es. Registri della popolazione, registri basati sulle strutture e sondaggi sulle famiglie) al fine di massimizzare le informazioni sanitarie disponibili