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La Silicon Valley che finanzia Washington. Il valore delle lobby

 

 

 

Don’t be evil, non essere cattivo. Questo è stato il motto di Google fino al 2015. Da allora il nuovo soggetto, Alphabet, ha adottato uno slogan diverso: Do the right thing, fa’ la cosa giusta. Il nuovo claim, se interpretato in chiave di puro pragmatismo, spiega molto del cambiamento in cultura d’impresa che non solo Google ma anche altre maggiori aziende high-tech californiane hanno effettuato negli ultimi anni.

Per avere una misura di ciò, basti guardare i flussi di denaro che da Silicon Valley giungono a Washington, sotto forma di attività lobbistiche. I dati, che le imprese Usa sono obbligate a rendere pubblici, sono ottenuti tramite un sito del Senato Americano (Lobbying Disclosure Act Database). Altri studi solitamente si concentrano su denaro versato esclusivamente a terze parti, ovvero società specializzate nell’influenza politica e nel lobbismo, società leader come la Akin, Gump et al, che nel 2016 ha fatturato 39 milioni di dollari. A questo tipo di spese, tuttavia, sommiamo anche il denaro versato per i lobbisti impiegati internamente dalle stesse imprese.

Il Lobbying Disclosure Act Database si propone di favorire trasparenza e tracciabilità dei finanziamenti che da America Inc. fluiscono verso Washington. Esso contiene numeri annuali e trimestrali sia su spese per i lobbisti esterni che interni alle compagnie. Parliamo, quindi, non solo di lobbisti semplicemente commissionati, ma anche di professionisti internamente impiegati ed assunti a tempo pieno dalle varie aziende per dedicarsi all’influenza politica.

Rivelante è il numero di lobbisti che da quest’anno, stando al Financial Times,  mostrano un biglietto da visita di Amazon: ben 28, in crescita dai 14 che impiegavano quando Trump è stato eletto, a testimonianza che le diatribe tra il Presidente e Bezos (fondatore e a.d. del distributore online) hanno stimolato un certo tipo di dialogo.

Per intenderci, il personale di cui sopra è ben più grande di quello di JPMorgan Chase e Citigroup, che impiegano rispettivamente 11 e 7 lobbisti, e il più grande di Silicon Valley.

Il confronto con Wall Street è impietoso: Silicon Valley spende, tra lobbisti esterni ed interni, 3.5 volte di più: 77 milioni di dollari nel 2017, con Google che da solo ha speso più dell’intera categoria newyorkese, formata da Goldman Sachs, Morgan Stanley, Bank of America Merrill Lynch, JPMorgan Chase e Citigroup.  Tutto ciò senza includere, ad esempio, somme donate alle campagne elettorali.

Nel grafico di Infodata soprastante, paragoniamo l’evolversi delle spese lobbistiche totali delle 5 più grandi aziende hi-tech di Silicon Valley (per capitalizzazione di mercato; categoria blu) con quelle delle 5 più grandi banche di Wall Street (categoria arancione) dal 2010 al 2017.

Ma quanto conta avere buoni rapporti con Washington? Molto, troppo forse. Ma nessuno può dirlo con certezza. Sarebbe interessante analizzare il numero di cause legali che ebbe Microsoft negli anni ’90 e paragonarlo con quello odierno delle varie Facebook e Google: la prima non coltivava rapporti con il Campidoglio, di certo non in maniera paragonabile alle seconde.

Sarebbe inoltre istruttivo analizzare le somme che oltrepassano l’Atlantico per giungere qui in Europa. Evidentemente l’investimento nel Vecchio Continente rende meno, dal momento che da Maggio, nell’UE, è entrata in vigore la GDPR (Global Data Protection Regulation), e ormai da mesi si vocifera di una possibile online tax.

Ferdinando Croce.