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tecnologia

Startup, ecco perché l’ecosistema in Italia fa così fatica a crescere

Ha fatto molto discutere l’annuncio del presidente francese Emmanuel Macron di voler creare un fondo per startup da 10 miliardi di euro. Una discussione accesa anche all’interno dell’ecosistema italiano. Molti lo hanno utilizzato come argomento per criticare la classe politica italiana e la sua scarsa sensibilità verso il tema dell’innovazione. Ma siamo sicuri che l’ecosistema stesso non sia esente da responsabilità?

 

Per provare a capirlo meglio, InfoData ha utilizzato i nuovi dati del registro imprese relativo alle startup innovative (cruscotto startup innovative al II trimestre 2017). Numeri che raccontano della quantità di aziende attive sul territorio, più di 7mila, e delle loro dimensioni, vero tasto dolente. Le realtà italiani capaci cioè di fatturare più di 1 milione di euro, infatti, si contano sulle dita di una mano.

 

Certo, un approccio di questo tipo non dà conto dei casi singoli, tra i quali certamente si annidano storie di grande successo. E, sicuramente, anche di fallimento. Ma permettono di farsi un’idea dello stato di salute dell’ecosistema italiano dell’innovazione. Che, come detto, dal punto di vista del numero di attori in campo è molto popolato. Più di 7mila le aziende, distribuite in questo modo su tutto il territorio nazionale:

 

 

La città metropolitana di Milano accoglie più di mille startup innovative: una su sette, in pratica, ha sede all’ombra della Madonnina. Una su dieci è nata nella capitale, quindi vengono Torino e Bologna. Il filtro posto in alto sulla mappa consente di selezionare uno specifico settore di attività (il valore “null” indica che il dato è mancante) per visualizzare dove siano localizzate le aziende che operano in un determinato campo.

 

Ed è proprio qui che emerge un primo elemento interessante: 2.300 statup, poco meno di una su tre, sono attive nella produzione di software e nell’informatica. Quante di queste stanno realmente facendo innovazione e quante invece inseguono il sogno, praticamente un’utopia, di essere il prossimo Facebook?

 

Un migliaio di startup, è vero, sono attive nel settore della ricerca scientifica. Ma sono poche, invece, quelle che hanno a che fare con la produzione nel senso industriale del termine. Quelle cioè il cui successo non dipende necessariamente dalla capacità di fare massa critica. E che più facilmente potrebbero attirare l’attenzione delle grandi aziende italiane per un’acquisizione. Per quanto nel nostro Paese questa mentalità per cui l’acquisto di una startup sia un investimento in ricerca e sviluppo non sia per niente diffusa.

 

Il risultato è che l’ecosistema italiano non riesce ad emanciparsi dal refrain per cui “piccolo è bello”. Basta guardare indicatori come il capitale sociale, il numero di addetti e soprattutto il fatturato per comprenderlo.

 

Il 94% delle startup innovative italiane ha un capitale sociale inferiore a 10mila euro. Il 79% impiega al massimo 4 addetti. Il 50% fattura meno di 100mila euro l’anno. Ora, è vero che non di tutte le oltre 7mila realtà censite dal registro sono riportati questi dati. Quelli mancanti, ad esempio, potrebbero migliorare le percentuali. Così come peggiorarli, ovviamente.

 

Ragionando sui numeri che si hanno a disposizione, però, il quadro che emerge è quello di un ecosistema dove sono poche le aziende in grado di trovare un business scalabile. Ovvero di attirare grandi investitori capaci di accelerarne la crescita.

 

Viene insomma da chiedersi quale sia il coefficiente di innovazione complessivo delle startup italiane. Ancora una volta: si sta ragionando nel complesso, non mancano certamente i casi singoli capaci di essere realmente disruptive nel loro settore.

 

Il decreto Passera, la legge che nel 2012 ha introdotto il concetto di startup innovativa, fissa tre criteri perché un’azienda si possa ritenere tale. Il primo riguarda l’investimento in ricerca di una cifra pari ad almeno il 15% del fatturato. Il secondo il titolo di studio dei componenti del team: o la laurea magistrale per due terzi dei membri, o un dottorato per un terzo dei fondatori. Infine, il possesso di un brevetto. Ebbene, la situazione è questa:

Con l’eccezione dell’investimento in ricerca e sviluppo, per gli altri indicatori la voce più consistente è quella relativa ad un dato mancante. In altre parole, non si ha contezza di quanto siano innovative le startup italiane, almeno non nel senso indicato dalla normativa che compirà cinque anni a dicembre.

 

Anche in questo caso, occorre basarsi sui numeri che si hanno a disposizione. E i numeri dicono che solo una startup innovativa su cinque è titolare di un brevetto, una su tre è fondata da persone con una laurea o un dottorato. In compenso, più della metà investe in ricerca e sviluppo secondo i dettami del decreto.

 

Ad ulteriore conferma delle difficoltà dell’ecosistema italiano dell’innovazione, ecco i numeri relativi al secondo trimestre 2017 diffusi questa mattina dal Mise in collaborazione con Unioncamere e InfoCamere. Dati che mettono a confronto il valore della produzione delle startup e delle società di capitale:

 

 

 

Sia che si guardi al valore medio, sia che ci si concentri su quello mediano, il raffronto è impietoso per le startup. E probabilmente sono questi i dati che meglio di altri spiegano perché, risorse a disposizione a parte, nessun politico italiano abbia mai proposto un fondo da 10 miliardi di euro per finanziare l’innovazione.

Ultimi commenti
  • Victor |

    Siamo davvero sicuri che il buon sistema di marketing sia fatto dai venditori?

  • Sergio |

    Secondo me bisognerebbe anche onsiderare le politiche di marketing e vendita. Posso avere il titolo di studio, posso avere il miglior reparto R&D, posso avere tutti i brevetti che voglio, ma se non ho dei venditori bravi e del buon marketing per il posizionamento del prodotto, questo nel mercato vale zero. Gli Stati Uniti hanno solo più marketing di noi non R&D

  • luigi chiarion |

    Mi sconcerta il canale codificato governativo, che viene usato per definire “start up” . In Italia esistono moltissime start up innovative, che hanno scelto, loro malgrado, di inserirsi in modo autonomo e indipendente, direttamente sul mercato senza l’ausilio di inutili “incoraggiamenti” governativi. La vera sostanza è che ciò che si fa in Italia per favorire l’innovazione è praticamente nulla. La maggioranza, quindi, delle vere nuove aziende innovative non risultano nei censimenti. Devono anch’esse e a pieno diritto essere considerate start up innovative anche se dalla sua poltrona non riesce ad osservarle. Vede, una volta i recensori delle guide della ristorazione per scovare i buoni ristoranti, scandagliavano sistematicamente il territorio, seguivano i consigli della gente del luogo, e la scoperta di una cucina d’eccellenza era motivo di grande soddisfazione e plauso. Oggi per scrivere il suo articolo ha fatto un paio di telefonate, preso i dati delle CCIAA, poi del governo, e l’analisi è fatta. Vada in giro per l’Italia che lavora, troverà un numero sorprendente di piccole aziende neonate che sviluppano da sole, senza stupidi incubatori gestiti da politici e ottuse università, buone innovazioni valide per il mercato e magari riescono a sopravvivere benino, sporcandosi le mani ogni giorno, e maledicendo il “governo” (qualsiasi, beninteso) che prima di aiutare chiede denari e pone ostacoli. Grazie di avermi letto. Luigi Chiarion, co-titolare di start-up innovativa non censita.

  • fabio |

    Buongiorno dottore e grazie per l’interessante articolo.

    Posso metterlo sul mio sito? Puoi prendere contatto con me? Ti voglio anche spiegare del mio progetto che potrebbe interessarti. Buona giornata.

  • fabio |

    Buongiorno e grazie per l’interessante articolo.

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