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La sharing economy in Europa vale 572 miliardi. Ma ha bisogno di regole

Vale, almeno sulla carta, qualcosa come 572 miliardi di euro. Ma ha bisogno di essere regolamentata. È questa l’immagine della sharing economy che emerge dal rapporto “The cost of non Europe in the sharing economy”, pubblicato dal Parlamento europeo alla fine dello scorso mese di gennaio. Uno studio che prova a misurare le potenzialità dell’economia della condivisione, indicando allo stesso tempo le problematiche poste dallo sviluppo di questa nuova forma di scambio.

 
In questo contesto, infatti, non si tratta più di pagare per il possesso di una merce, ma per la possibilità di utilizzarla. È quello che succede quando si affitta un appartamento su Airbnb o quando si chiede un passaggio su BlaBlaCar. Ma anche quando si compra un oggetto usato su eBay o si partecipa ad una campagna di crowdfunding. Gli elementi di fondo sono due: la condivisione e l’utilizzo di una piattaforma digitale che la renda possibile.
 
Il Parlamento europeo ha provato a quantificare la spesa pro capite annuale che potrebbe essere “rimpiazzata” con l’utilizzo della sharing economy, che va dai 1.100 euro l’anno in Bulgaria ai 14.600 nel ricco Lussemburgo, passando per i 7.200 dell’Italia. Ed ha anche valutato il tasso di sottoutilizzo di due degli asset che più facilmente si prestano ad entrare nell’economia della condivisione: la casa e l’auto. Ma se per la prima la percentuale è molto bassa, tanto più che nel computo sono state inserite solo le prime case, è per la seconda che i numeri diventano impressionanti. Guardando al Belpaese, le automobili restano ferme in garage o nel parcheggio per l’88% della loro “vita”. È il terzo più alto dato europeo dopo quelli di Germania e Finlandia.
 
Insomma, quello dell’auto da prestare agli sconosciuti dietro compenso è un mercato con grandi potenzialità. Ma, appunto, servono regole. Che evitino, innanzitutto, forme di concorrenza sleale da parte degli operatori della sharing economy su quelli tradizionali. Un esempio delle problematiche connesse a questo tema lo si è visto in Italia con le proteste dei tassisti e le sentenze contro Uber. A livello europeo, segnala il rapporto del Parlamento, si oscilla da posizioni più proibizioniste ad altre orientate al lassez-faire.
 
E in Italia? All’inizio del mese di marzo l’intergruppo parlamentare per l’innovazione ha depositato un disegno di legge, che rimarrà in consultazione pubblica fino al prossimo 16 maggio. Chiunque, insomma, potrà dire la sua suggerendo modifiche o integrazioni. Uno dei nodi più spinosi affrontati è quello relativo agli aspetti fiscali. L’idea è quella di introdurre un’aliquota fissa al 10% per gli introiti generati dalla sharing economy fino a 10mila euro, soglia oltre la quale questi soldi sono considerati reddito e rientrano nelle regole della fiscalità generale. Viene inoltre sancito il divieto per le piattaforme di indicare delle tariffe fisse per i servizi offerti. E si da mandato all’Agcm affinché vigili su questo settore.
 
Fin qui gli aspetti legislativi. Per capire però quanto sia diffusa l’economia della condivisione in tutta la Penisola è utile guardare al rapporto “Sharing economy: la mappatura delle piattaforme italiane 2015” realizzato da Marta Mainieri insieme a Collaboriamo e Phd Italia, presentato lo scorso autunno. Il report ha censito 118 realtà attive, con un aumento del 22% rispetto alle 97 dell’anno precedente, e riporta i dati di una survey cui hanno risposto però solo 55 aziende. Stando a questi numeri, i settori in cui in Italia è più sviluppata la sharing economy, almeno a livello di presenza di piattaforme, sono quelli dei trasporti, del turismo e dello scambio di beni di consumo. Sono soprattutto le donne e le persone di mezz’età ad utilizzarle, anche se per il momento i numeri non sono certo da capogiro. Più del 50% delle piattaforme ha meno di 5mila utenti mensili e la stragrande maggioranza ha gestito meno di un migliaio di scambi al mese.