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economia

Depressione: i più poveri prendono più farmaci ma non stanno meglio

Abbiamo raccontato che il 7% degli italiani assume antidepressivi, una stima comunque al ribasso. In moltissimi casi la depressione non è riconosciuta,  accettata, o comunque diagnosticata. Detto questo, si osserva un consumo pari se non maggiore di antidepressivi nelle fasce socioeconomiche più svantaggiate. Significa dunque che si riesce ad abbracciare appieno un bisogno? Non pare: fra i meno abbienti lo stato di salute psichica percepito è comunque molto più basso rispetto a chi non ha problemi economici, segno che l’accesso al farmaco non basta.

Ne parla l’Atlante delle disuguaglianze sociali nell’uso dei farmaci per la cura delle principali malattie croniche, pubblicato da AIFA alla fine del 2021, che raccoglie molti dati su quanto la depressione e la sua gestione viene impattata dalle differenze socioeconomiche, e geografiche. Attenzione però, in queste tabelle il dato sullo status economico riguarda il comune, non le famiglie. Sono i comuni a ricadere in uno dei tre terzili di reddito.

Meno soldi, più farmaci

Per quanto riguarda l’essere in cura con antidepressivi, il tasso di consumo risulta essere grosso modo lo stesso, e in molte regioni addirittura più alto, nel terzo terzile (cioè nei comuni con reddito medio più basso) rispetto al primo terzile, cioè fra i più benestanti. Una differenza rispettivamente di 9,8 DDD (dosi giornaliere per 1000 abitanti) contro 11,2 DDD pro capite negli uomini e di 19,1 vs 21,3 DDD pro capite nelle donne. La disomogeneità territoriale è evidente: si osserva una notevole variabilità tra regioni, con una distribuzione geografica del tasso di consumo standardizzato per età, che evidenzia valori tendenzialmente più alti per il Centro-Nord rispetto al Sud.
“Queste differenze – commentano gli autori – potrebbero essere dovute a differenti com- portamenti prescrittivi dei medici, ma anche a una diversa sensibilità dei pazienti ai disturbi depressivi e a un differente accesso alle cure specialistiche.” Il trattamento psicologico o addirittura lo psicoterapeuta hanno costi decisamente più elevati rispetto ai farmaci, che fa supporre – in assenza di dati solidi su questo aspetto – che chi non risulta consumatore di farmaci, cioè in qualche modo in cura per la depressione, non lo sia per nulla.

Più depressi fra i meno istruiti

Che la povertà e la disoccupazione involontaria siano associate a una maggiore probabilità di sviluppare depressione è ben documentato in letteratura. Una nota Istat del 2018 (la più recente disponibile) aveva evidenziato che i disturbi ansioso-depressivi raddoppiano negli adulti con basso livello di istruzione rispetto ai coetanei, e addirittura triplicano tra gli anziani: (16,6% fra i gruppi più svantaggiati rispetto a 6,3% fra i gruppi meno svantaggiati). Inoltre, inattivi e disoccupati tra i 35-64 anni riferivano più spesso disturbi di depressione o ansia cronica grave – rispettivamente il 10,8% e l’8,9% – rispetto ai coetanei occupati (3,5%).

Fra gli adulti di età compresa tra i 35 e i 64 anni e fra gli anziani con basso livello di istruzione la prevalenza di persone con sintomi depressivi è doppia rispetto ai coetanei con un maggior livello di istruzione. Fra i 35-64 enni passiamo dal 7,5% di persone con basso livello di istruzione che presentano sintomi depressivi contro il 3,4% di chi ha un livello di istruzione più elevato. Fra gli over 65, si passa dal 16,6% al 6,3%.
Parallelamente, risultano più depressi i soggetti appartenenti ai due quintili di reddito più basso (se suddividiamo la popolazione italiana in cinque gruppi a seconda del reddito). Presenta disturbo depressivi l’8% di loro contro il 4% dei coetanei appartenenti ai due gruppi di reddito più fortunati.
L’essere affetti da limitazioni nelle attività quotidiane è il fattore principale che contribuisce ad incrementare più di 8 volte il rischio di riferire disturbi di depressione o ansia cronica grave nei giovani e negli adulti e di 5 volte negli anziani. A parità delle componenti socio-demografiche (età, sesso, titolo di studio, quinti di reddito) emerge inoltre che la percezione di una debole rete di sostegno sociale comporta un aumento di quattro volte del rischio tra i giovani seguita dalla rottura di un rapporto relazionale ritenuto importante, dall’esclusione dal mondo del lavoro e dalla percezione di dolore fisico grave o moderato.

Eppure la salute mentale rimane peggiore

Stando ai dati della rilevazione PASSI 2017-2020 dell’Istituto Superiore di Sanità, percepisce positivamente il proprio stato di salute complessiva il 58% di chi presenta molte difficoltà economiche contro il 77% di chi non ha problemi di questo tipo. Un gap ancora maggiore a seconda del titolo di studio, che il più delle volte incide sul reddito e sull’accesso alle cure: dà un giudizio positivo del proprio benessere il 63% di chi ha la licenza media, il 76% di chi ha un diploma e l’80% dei laureati.
Lo stesso trend si riscontra nell’indicatore “giorni non in salute per motivi fisici e psicologici” fra gli adulti tra i 18 e i 64 anni. Chi ha molte difficoltà economiche vive male per motivi psicologici 4,6 giorni al mese, contro i 2 di chi non presenta problemi economici. Lo stesso gap si riscontra rispetto al malessere per motivi fisici.
Fra gli anziani con più di 65 anni, il 28% di chi ha difficoltà economiche percepisce negativamente il proprio stato di salute e dichiara 8,5 giorni al mese di cattiva salute mentale. Chi non ha di questi problemi, passa circa 3 giorni al mese in cattiva salute psichica e solo il 6,5% ha una cattiva percezione complessiva del proprio benessere.