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Nba, il fenomeno Stephen Curry analizzato con la statistica (e l’indicatore di John Hollinger)

A distanza di qualche settimana dal freschissimo quarto titolo NBA conquistato insieme ai suoi Golden State Warriors (quinto titolo complessivo per la franchigia della Baia di San Francisco), nella redazione di Info Data abbiamo deciso di dedicare a Stephen Curry un piccolo speciale che ne celebri l’importanza all’interno della dinastia che si è creata nelle ultime otto stagioni, ma soprattutto che possa dare una chiave di lettura aggiuntiva per collocare il numero 30 tra i grandi della storia NBA.

Per quanto il meccanismo degli Warriors giri attorno ai Big Three, che in realtà sarebbero non meno di quattro se considerassimo anche Steve Kerr che li guida da bordo campo, è innegabile che quel tipo di sistema non potrebbe esistere senza la presenza di “Steph” ad alimentarne la pericolosità offensiva che costringe le difese ad un effirt costante già da pochi centimetri oltre la metà campo.

Pur considerato spesso come il playmaker della squadra da un punto di vista un po’ anacronistico, più che altro per questioni di statura, chi conosce la NBA degli ultimi anni saprà bene che ormai è molto difficile trovare le point guard vecchio stampo a-la Magic Johnson (o Chris Paul, per restare attuali) e Curry non fa eccezione in tal senso, potendo spesso delegare i compiti di facilitatore/regista a Draymond Green che, a fronte di un ruolo nominale oscillante tra il “4” (power forward, ala grande) e il “5” (center, centro/pivot), incarna alla perfezione il concetto di point forward di cui probabilmente LeBron James rimarrà per sempre il riferimento assoluto negli anni a venire.

Quindi se non fa il playmaker e ha quel fisico lì, cosa fa?

Fa sempre canestro, ma soprattutto segna da ogni posizione del parquet. E quando scriviamo “ogni”, intendiamo davvero qualsiasi parte della metà campo offensiva. Se foste per caso rimasti chiusi in un bunker sportivo-mediatico per qualche decade e vi foste riavvicinati alla NBA solo recentemente, potreste chiedervi – giustamente – come mai ci sia così tanta inclinazione verso il tiro da tre punti rispetto al passato.

Una delle spiegazioni (volendo contemplare anche la filosofia introdotta dalle squadre di Mike D’Antoni, specialmente nella sua ultima esperienza alla guida degli Houston Rockets) porta appunto il nome di Stephen Wardell Curry che ormai è diventato il sinonimo di canestro da tre punti, frantumando con anni di anticipo qualunque record in fatto di triple segnate (ormai superato Ray Allen alcune stagioni fa per il maggior numero di canestri da tre segnati in carriera), e associato però – dettaglio non da poco – a quattro titoli NBA che lo rendono un modello di riferimento altamente imitato ma difficilmente riproducibile in maniera fedele.

Di certo, come recita il soprannome “Splash Brothers”, l’aver trovato in Klay Thompson un fratello cestistico (oltre a quello biologico, Seth, anch’egli tiratore letale attualmente in forza ai Brooklyn Nets) ha fatto sì che la loro letalità come tiratori produca risultati decisamente più amplificati rispetto a quanto potrebbero fare come singoli, e pur considerando anche il motore che alimenta il sistema Warriors – vale a dire il già citato Green – resta il fatto che Curry, a maggior ragione con la recente nomina a MVP delle Finals, deve essere assolutamente considerato quando si intavolano i classici discorsi da bar per stilare le graduatorie dei giocatori più forti di sempre.

Normalmente, quando ci si addentra in queste discussioni, il rischio è sempre quello di rimanere nel reame delle opinioni che, per quanto valide e condivisibili passano essere, restano sempre tali e potenzialmente non collegate strettamente con i fatti.

È per questo motivo che noi di Info Data, quando trattiamo certi temi, ci affidiamo ai numeri e per questa circostanza abbiamo deciso di avvalerci di una speciale graduatoria confezionata da John Hollinger (il creatore dell’indicatore sintetico PER, tanto utilizzato per valutare l’efficienza dei giocatori) per stabilire chi vada considerato come il GOAT (greatest of all time).

Nei grafici che seguono sono rappresentati i top 100 giocatori della storia NBA seguendo questo modello, facendo un focus sui giocatori ancora in attività (giallo a differenza di quelli ritirati in verde) tra cui appunto Steph Curry (blu).

Specialmente per il primo grafico, per favorire un po’ di suspence, tolto il caso di Curry, per scoprire a quale giocatore corrisponda quale posizione è necessario interagire col grafico (passaggio del cursore da desktop o click da mobile).

 

Benché si parli di numeri e quindi di fatti, come sempre va ricordato che a meno non si parli di statistiche puntuali, come ad esempio la media realizzativa, un indicatore sintetico è sempre il frutto di tante voci a cui viene attributo un peso in modo che poi, unendole tutte, si ottenga un unico numero onnicomprensivo.

In questo caso, Hollinger come specificato nell’articolo pubblicato su The Athletic in concomitanza con l’All Star Game dello scorso febbraio, ha voluto fare in modo che venissero contemplati sia traguardi a livello di singola stagione sia sulla base della carriera in modo da poter confrontare le storie di giocatori con percorsi diversi e soprattutto spalmati su diverse ere cestistiche.

I parametri contemplati sono quindi: percentuale di voti nell’attribuzione dell’MVP della regular season, inclusione in uno dei tre quintetti ideali della stagione, conquista dell’MVP delle Finals, convocazioni per l’All Star Game, win share (semplificando, contributo alle vittorie della squadra) in carriera oltre quota 100, Box Plus/Minus (contributo del giocatore quando è in campo rispetto a quando è in panchina) in carriera superiore a 2.

Fatta questa premessa (forse fin troppo) tecnica che potrà poi essere approfondita a piacere dagli interessati, andiamo dritti al sodo per vedere quello che tutti normalmente cercano in queste classifiche: chi è il migliore?

Senza girarci troppo attorno, ma al contempo senza fare troppi spoiler (interagite col grafico per scoprire chi occupa ogni posizione), la prima posizione è occupata da LeBron James che stacca tutti dall’alto dei suoi 847 GOAT point, prendendosi il lusso di far accomodare al secondo posto niente meno che Michael Jordan (764 punti) che notoriamente compare invece sempre primo in ogni tipo di classifica simile (anche nel cuore di chi scrive, per quello che conta).

Prima che si infiammi un dibattito tra fazioni in merito alla bontà dei criteri, ricordiamo che con un meccanismo simile, tanto più un giocatore avrà avuto una carriera longeva e al contempo sempre su standard di eccellenza, tanto più il punteggio sarà alto.

Non deve quindi stupire se James, prossimo ormai alla ventesima stagione, a parità (va bene la par condicio?) di eccellenza, abbia un punteggio più alto di quello di Jordan che di stagioni ne ha giocate solo quindici.

Analogamente, pur senza fare i nomi (esplorate per vedere quanti ne indovinate), non sarà una sorpresa trovare nelle prime posizioni tutti quei giocatori che figurano sempre in alto nelle graduatorie all time – in cui si premia soprattutto la longevità – costituendo un gruppo di undici giocatori il cui valore più basso è pari a 474 punti.

Staccati di circa 120 GOAT point troviamo poi un altro insieme di tredici cestisti che vedono come limite inferiore i 297 punti di Chris Paul, ancora in attività come gli altri due rappresentanti del gruppo, vale a dire Kevin Durant (353) e James Harden (343).

Per trovare Steph Curry (226) bisogna scendere al terzo tier fino alla posizione numero 26 che lo colloca poi di conseguenza al quinto posto tra i giocatori attualmente ancora in attività.

Giusto?

Come sempre è difficile dirlo ma,  numericamente parlando, la conquista del titolo e del trofeo di MVP delle Finals dovrebbero fargli guadagnare punti extra e specialmente in ottica futura, salvo infortuni, la scalata in questa graduatoria dovrebbe continuare in maniera sostanziosa anche nei prossimi anni.

Probabilmente, potrebbe far storcere il naso vedere James Harden così più in alto rispetto a Curry ma, a dire il vero, la posizione della “Barba” sembra troppo alta in generale e non solo se paragonata al numero degli Warriors.

Ad ogni modo, con buona pace dei numeri, a prescindere dalle graduatorie, la cosiddetta “legacy” di Stephen Curry è già  stata tracciata e sta cominciando a lasciare un solco indelebile nella concezione del realizzatore di primissima fascia senza aver alcun tipo di caratteristica particolarmente straordinaria, senza contare che lo sta facendo per la stessa squadra che lo scelse al draft del 2009 con la settima chiamata assoluta.

Già questo, visti i tempi che corrono con i super team che si formano ogni estate con la speranza di avvicinarsi più velocemente al titolo NBA, sarebbe più che sufficiente per renderlo un’icona ma, come già anticipato, l’unicità di Curry è visibile ad occhio nudo in tante altre cose; specialmente quando parte un tiro che per novanta giocatori su cento sembrerebbe un azzardo insensato, mentre per Steph, spesso, è poco più di un tiro da allenamento.