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Ecco le startup del giornalismo che vogliono innovare l'editoria


Quando è nata nel 2009, la startup indiana Gram Vaani (“Voce del villaggio”) progettava di sviluppare un software open source per migliorare la connessione delle stazioni radio locali. Le cose sono andate in maniera un po’ diversa: i fondatori si sono inventati un sistema di broadcasting mobile che aggira i costi delle licenze e le censure governative, fornendo informazioni a 2 milioni di utenti in 15 Paesi. La storia, raccontata anche nel saggio «Publishing for peanuts – Innovation and the journalism startups», è uno dei case history di startup giornalistiche che “ce l’hanno fatta”, insieme a piattaforme no-profit di giornalismo investigativo (ProPublica), aziende che usano droni per documentare eventi (la sudafricana AfricanSkyCam) e iniziative che si muovono a metà strada tra digitale, produzione di contenuti o battaglie ad impatto sociale.
Il problema è che qualità dell’informazione e innovazione tecnologica non si sono tradotti, per ora, in un modello sostenibile dal punto di vista economico. La stessa Gram Vaani ha raccolto in sette anni circa 500mila dollari in finanziamenti, la metà di quanto incassato in un round da startup dell’e-commerce e a grande distanza dalle valutazioni miliardarie delle imprese Ict. Il tutto, mentre l’editoria tradizionale continua a soffrire tra crollo delle vendite e un approvvigionamento pubblicitario insufficiente: gli ultimi dati dell’Area studi di Mediobanca hanno segnato un calo del 33% nei ricavi tra 2011 e 2015 per le sole testate italiane, peggio della media comunque negativa dell’Unione europea (-24%) e Nord America (11%).
Una via d’uscita potrebbe emergere proprio dalla contaminazione tra le grandi testate e imprese innovative, attraverso l’acquisizione diretta di aziende giovani o hackathon (le maratone di startupper) per stimolare soluzioni nuove al servizio di colossi già sul mercato. Lo scambio è reciproco: gli editori cercano di aprire canali diversi da quelli tradizionali, le startup possono avvalersi di un “marchio” conosciuto per inserirsi in un business mai così affollato come nell’era di social network e delle notizie a costo zero. Qualche esempio? Google ha messo sul piatto 24 milioni di euro nel secondo round della sua Digital News Initiative, un fondo per neoimprese editoriali coordinato con i principali editori europei. Tra i progetti finanziati spuntano anche i casi italiani di Babelee (un sistema per trasformare in video i contenuti giornalistici), Carlo Strapparava (un ingegnere che sta lavorando a un sistema automatico per generare titoli accattivanti), Catchy (team di ricercatori e media analyst che progetta un filtro digitale per proteggere editori e pubblico dalle fonti meno affidabili) e Cefriel (un sistema di micro-pagamenti via blockchain per l’editoria digitale). Gruppi storici come il Washington Post, complice l’acquisizione da parte di Jeff Bezos nel 2013, hanno iniziato a spingere sul digitale e coltivare startup con eventi come Hacking Journalism: una hackathon per «disegnare il futuro dell’informazione», con focus specifico sul rapporto tra informazione e analisi dei dati. E poi ci sono startup in cerca di risorse per crescere ancora, dall’italiana VoxPop (si legga l’articolo sotto) al social network per reporter Muck Rack.
Lo scoglio finale, però, è ancora rimasto in sospeso: la scoperta di un revenue model, l’elaborazione di un modello che garantisca ricavi concreti oltre alle motivazioni ideali e al know-how tecnologico. Anya Schiffrin, ricercatrice alla Columbia University’s School of International and Public Affairs di New York e direttrice del programma in media e tecnologia, spiega che si sono già esplorate più strade: “pay-wall” per accedere a contenuti online, abbonamenti base e premium, organizzazione di eventi, contenuti B2B. Nessuna, però, ha fornito una soluzione soddisfacente rispetto ai canoni di un’azienda che riesca a sopravvivere almeno nel mercato domestico. Un compromesso efficace potrebbe essere un “modello misto” di entrate, con la somma di singole strategie di ricavi: «Raccogliere denaro da premi, crowdfunding, vendere servizi e informazioni, costruire programmi di membership,ospitare eventi – dice Schriffin- L’importante è ricordare che, nonostante l’entusiasmo, molte startup non cresceranno. Falliranno in tante, altre resteranno di nicchia».
Qui trovate il dossier sulle startup http://www.ilsole24ore.com/dossier/tecnologie/2015/start-up-sole/
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