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Startup scettiche, 134 Ipo nel 2017. Cresce l’Asia ma pesa l’effetto Snapchat

Nei primi cinque mesi del 2016, il bilancio delle quotazioni di startup tecnologiche a Wall Street è stato abbastanza modesto: una, l’azienda di cybersecurity SecureWorks. Nello stesso periodo del 2017 se ne sono contate nove, a partire da casi clamorosi come quello di Snap (l’azienda che produce il sistema di messaggistica Snapchat) e dei più di 3 miliardi raccolti nel suo debutto a marzo.

Basterebbe questo dato, rilevato dal portale TechCrunch, per spiegare il ritorno alla crescita delle Ipo di aziende innovative dopo anni di stasi e un 2016 in declino.  La società di ricerca britannica Dealogic ha registrato un totale di 134 pratiche per Ipo depositate da startup del settore nei primi sei mesi del 2017, a fronte di una raccolta generale di 15,1 miliardi che ha eletto il tech come l’industria più calda per numero di accordi finanziari.

A trainare il rialzo sono soprattutto le piazze asiatiche, grazie all’incrocio di politiche incentivanti e  ritmi di espansione generali delle economie del Far East. Sempre secondo Dealogic, l’area dell’Asia-Pacifico ha registrato 97 operazioni a giugno 2017, una quota pari al 72,4% del totale. La spinta maggiore arriva da Giappone e soprattutto Cina, dove l’atteggiamento accomodante delle autorità finanziarie ha favorito un totale di 12 collocamenti solo nel primo trimestre dell’anno. Non si sfiorano neppure exploit come quello di Alibaba, il gigante e-commerce forte di un esordio-record da 25 miliardi di dollari a Wall Street nel 2014, ma la raccolta viaggia comunque su 1,2 miliardi contro i 267 milioni del primo trimestre 2016.

Più modesti i numeri di Europa e Medio Oriente (22 operazioni, il 16,4%), e degli stessi Stati Uniti (15 Ipo, l’11,2%), anche se il mercato degli Usa mantiene il primato nel valore finanziario, cioè nei capitali raccolti: quasi 5 miliardi di dollari, quattro volte più della Cina.

Il problema è che i numeri sono spinti all’insù più da una manciata di operazioni corpose che da un trend omogeneo, come testimonia lo sbilanciamento della stessa Wall Street sulle operazioni a maggior impatto. Un’indagine della società di consulenza Pricewaterhousecoopers ha evidenziato che, in assenza di Snap, il bilancio delle Ipo più ricche del listino americano calerebbe da 4,9 miliardi a 580 milioni di dollari. Senza dimenticare la riluttanza a quotarsi di alcune delle startup di maggior successo, inclini a restare nel “recinto protetto” di investitori privati e fondi venture capital.

Per fare qualche esempio, mancano all’appello il servizio di auto private Uber (valutato quasi 70 miliardi di dollari), la piattaforma di affitti Airbnb (valutata 31 miliardi di dollari) o l’azienda dall’aerospazio SpaceX, capitanata dall’imprenditore Elon Musk e capace di aggiudicarsi contratti da 10 miliardi di dollari. Il tutto mentre gli investimenti dei fondi di capitali di rischio sono saliti a 27 miliardi di dollari su scala globale nel primo trimestre 2017, rimbalzando dai 23,8 miliardi dell’ultimo trimestre 2016. Cosa manca per dare il via a una crescita reale delle Ipo di startup, oltre ai segnali positivi di un trimestre e qualche caso di successo?
Johan Van Der Biest, Senior fund manager di Candriam Investors Group, vede due scogli principali. Da un lato, la tendenza dei colossi tech a “mangiare” i concorrenti di piccole dimensioni prima che considerino la via del mercato, come testimonia la corsa all’acquisizione di startup intrapresa da grandi gruppi come Microsoft, Alphabet e Amazon. «In generale i livelli di liquidità delle società quotate sono elevati, specialmente nel comparto tecnologico – spiega Van Der Biest – Ciò significa che queste sono maggiormente disposte a finanziare o ad acquistare società di più piccole dimensioni: procedure che alla fine sono molto più semplici rispetto a una Ipo». Dall’altro, c’è una resistenza “culturale” delle stesse startup: l’offerta pubblica iniziale impone vincoli e obblighi di trasparenza che possono spaventare i business in via di definizione. Un conto è il marketing sul
 proprio prodotto, un altro i numeri del bilancio. «Le startup a volte desiderano evitare i costi di una quotazione in borsa – dice Van Der Biest – E anche tutti gli obblighi ad essa correlati (come relazioni trimestrali, controllo degli azionisti…) rappresentano spesso un motivo per evitare il listing».

startup@ilsole24ore.com

Articolo sul Sole 24 Ore del 11 luglio 2017